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capitolo terzo 125

un placito del marchese Bonifazio, tenuto nell’anno 1015; dalla conquista di Carlo erano allora passati dugento quarantun anno, pieni di rivoluzioni, o per dir meglio, di continua rivoluzione. Noi, dal vedere questo documento riferito come unica prova da un Muratori, possiamo in vece cavare un’altra conseguenza, cioè che, ne’ documenti anteriori al 1015 veduti da lui, che aveva veduto tanto, non sia fatta menzione di giudici romani. E ci prendiamo in quest’occasione la libertà d’osservare che le parole: in que’ secoli, o le equivalenti, furono troppo spesso usate anche da quell’insigne scrittore. Comprendendo in quelle parole di troppo ampio significato tutte l’epoche del medio evo, si chiuse più d’una volta la strada a scoprire ciò che c’era di più importante, cioè la distinzione appunto delle varie epoche, e in quelle il differente stato della società.

Uno scrittore posteriore al Muratori, dall’avere i Romani conservata la loro legge, argomenta in una maniera più positiva, che avessero anche giudici della loro nazione: «Dovevanvi dunque essere, dice, e tribunali e giudici italiani, che agli Italiani rendesser giustizia nelle cause che si offerivano ad esaminare 1.» Non fu forse mai scritto un dunque così precipitato; e non si può leggerlo senza maraviglia: poichè, dopo la pubblicazione dello Spirito delle Leggi, non pare che fosse lecito passare, per dir così, a canto senza avvertirlo, a quel fitto capitale delle dominazioni barbariche, la riunione del poter militare e del giudiziario in un solo ufizio, e nelle stesse persone 2. E già il Muratori aveva evidentemente provato che, presso i Longobardi, giudice e conte eran due parole significanti una sola persona 3: e non si può scorrere le memorie barbariche, senza avvedersi subito, che l’autorità di giudicare era riguardata come uno de’ più naturali, incontrastabili e importanti esercizi della conquista, della sovranità, del possesso, e quindi come un attributo de’ vincitori. Che se in qualche legge, in qualche cronaca longobardica, del periodo di cui qui si tratta, si trovassero queste portentose parole: giudici romani: sarebbe un fatto da osservarsi, un’anomalia da spiegarsi 4: ma non è un fatto da supporsi senza alcun dato, e per la sola induzione delle leggi diverse; non è un fatto da supporsi specialmente sotto quella dominazione, la quale, più d’ogn’altra, par che abbia levata ogni esistenza politica ai vinti. Un altro scrittore, ancor più moderno, credette che avesse sbagliato il Muratori nell’affermare che i conti avevano ufizio di giudici; e credette dimostrar lo sbaglio, dimostrando che la carica di conte aveva attribuzioni politiche e militari 5. Come se, nella maniera di vedere de’ Longobardi, queste fossero state incompatibili con le giudiziarie; come se anzi l’une e l’altre non fossero state per essi strettamente legate, e confuse nell’idea di sovranità aristocratica e nazionale.

L’errore di questo scrittore è derivato da una sorgente feconda d’errori già additata, ma troppo spesso inutilmente, dal Vico. Riferir qui le sue splendide parole, sarà uscir di strada un momento; ma qual sarà il lettore che ce ne voglia fare un rimprovero?

«È altra proprietà della mente umana, che, ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niun’idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti.

  1. Tiraboschi, Storia della Lett., tom. III, lib. 2, c. 5.
  2. Esprit des Lois, liv. 30, c. 18, Du double service; e altrove.
  3. Antiq., Dissert. VIII.
  4. Si trovano nel proemio delle leggi de’ Burgundioni, leggi degne d’osservazione per una singolare tendenza a pareggiare i conquistatori e i Romani.
  5. Ant. Long. Mil., Diss. 1,§ 64.