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118 discorso storico

dai riti religiosi, dalle formole di giurisprudenza, e dalle dottrine filosofiche; da temi, da fatti, da pensieri, in somma sparpagliati, per dir così, nella vita del genere umano, prese qua e là qualche indizio, che, per dir la verità, nelle sue idee diventa troppo presto certezza. Ma quando, dopo aver dimostrata l’ambiguità, la falsità, la contradizione dell’idee comuni intorno allo stato della società in un’epoca oscura e importante, sostituisce ad esse un’idea fondata sur una nuova osservazione de’ pochi fatti noti di quell’epoca; quanti errori distrugge a un tratto! che fascio di verità presenta, in una di quelle formole splendide e potenti, che sono come la ricompensa del genio che ha lungamente meditato! E anche quando, o la scarsità delle cognizioni positive, o l’amore eccessivo d’alcuni princìpi, o la fiducia che nasce negl’ingegni avvezzi a scoprire, lo trasporta e lo ferma in opinioni evidentemente false, e oscure non per profondità, ma per inesattezza d’idee, e quindi di espressioni; lascia nondimeno un senso d’ammirazione, e dà quasi ancora l’esempio d’un’audacia che potrebb’esser felice con qualche condizione di più; se non v’ha dimostrata, come credeva, una gran verità, vi fa sentire d’avervi condotti in quelle regioni, dove soltanto si può sperar di trovarne.

Osservando i lavori del Muratori e del Vico, par quasi di vedere, con ammirazione e con dispiacere insieme, due gran forze disunite, e nello stesso tempo, come un barlume d’un grand’effetto che sarebbe prodotto dalla loro riunione. Nella moltitudine delle notizie positive, che il primo vi mette davanti, non si può non desiderare gl’intenti generali del secondo, quasi uno sguardo più esteso, più penetrante, più sicuro; come un mezzo d’acquistare un concetto unico e lucido di tante parti che, separate, compariscono piccole e oscure, di spiegar la storia d’un tempo con la storia dell’umanità, e insieme d’arricchir questa, di trasformare in dottrina vitale, in scienza perpetua tante cognizioni senza principi e senza conseguenze; e, bisogna pure aggiungere, come un mezzo d’evitar qualche volta de’ giudizi precipitati; giacchè, ne’ confini più circoscritti, che paiono naturalmente i più sicuri, c’è però il pericolo di non rimanerci1 E seguendo il Vico nelle ardite e troppo spesso ipotetiche sue classificazioni, come si vorrebbe andar sempre avanti con la guida di fatti sufficienti

  1. Il Vico (Scienza Nuova, lib. 4: Della custodia degli Ordini), parlando delle due celebri rogazioni promulgate da C. Canuleio, sul principio del quarto secolo di Roma, dice che, a quel tempo, i plebei in Roma erano ancora stranieri. Non dico che tutti gli argomenti dal quali dedusse questo grande, e allora nuovissimo concetto, sarebbero parsi, nè avrebbero dovuto parere al Muratori ugualmente fondati; dico bensì che quelli che lo sono, e sono insieme così elevati e fecondi, obbligandolo a considerar più in grande o più addentro cosa importi, come esista, come si mantenga la cittadinanza in una società distinta da un’altra, e superiore ad essa, quantunque abitante nello stesso paese, non gli avrebbero permesso di credere, e nemmeno d’immaginarsi che i Longobardi e gl’Italiani fossero diventati, alla sordina, e per il corso naturale delle cose, un popolo solo. E, cosa singolare, quei due giudizi così diversi erano egualmente contrari alle prime apparenze. Il Vico vide degli stranieri, dove le denominazioni di patrizi e di plebe non facevano supporre altro che due classi di concittadini; il Muratori, con altri, volle de’ concittadini, dove i nomi indicavano due nazionalità. Senonchè il primo arrivò al suo, per dir cosi, paradosso con l’avere acutamente e profondamente osservato nelle condizioni di quelle due sorti d’abitatori di Roma antica alcune differenze essenziali e originarie, cioè tali da non essere nate da la convivenza, ma da dovere averla preceduta; il secondo aderì al paradosso davvero, per essersi fondato in vece sopra somiglianze accessorie, e sopra circostanze inefficienti. Certo, sarebbe sciocchezza, più che insolenza, il dire che a un tal uomo mancava il criterio da giudicar rettamente cosa valessero, quando l’avesse voluto! ma è lecito osservare che gli mancò il volerlo, perchè gli mancò l’eccitamento a volerlo, cioè l’essere avvertito dell’importanza del giudizio, l’aver presenti le relazioni del fatto su cui si decideva, con un genere di fatti. La filosofia della storia, che si manifesta così splendidamente nel primo di que’ giudizi, aveva senza dubbio molto meno da fare, ma era ugualmente necessaria nel secondo.