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Che se fra peccati di questo carme gl’italiani non trovano nè aridità di sentimento, nè stanchezza di fantasia, cosa s’ha egli a pensare di lei? o ch’ella ha inteso senza sentire — o che ha censurato senza intendere. Non le appongo la prima colpa, perch’ella non ha dato ancor prove di fibra cornea: bensì la tengo per convinto di studio immaturo della nostra lingua: e a lei non resta che il merito di una nobile confessione, di cui nè Plutarco nè Dionisio Longino arrossirono, il primo nel paralello di Demostene e di Cicerone non s’attenta a paragonare la loro eloquenza; l’altro nel Trattato del sublime1 si reputa incompetente a tanto giudizio; eleggendo quei due magnanimi, sebben versatissimi nella romana letteratura, di apparire men dotti per non farsi sospettare impudenti.

Poiché io pubblico questa lettera io voleva soddisfare al debito che ha ogni scrittore di rivolgere ciò che stampa a qualche pubblica utilità, enti accingeva a parlare sulle cause e gli effetti morali dell’articolo a cui ho ardito rispondere, ed a compiangere seco lei la mendicità, la sguaiataggine e la schiavitù de’ nostri giornali. Ma presso lo stampatore di quest’opuscolo trovo pronto a pubblicarsi un

  1. Sez. xii