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menti, non opportuni a questo discorso, per sospettare greco l’Inno a Cibele1. Poco ha Virgilio di veramente pastorale nelle Egloghe che non sia di Teocrito, ed oltre i versi trapiantati da Omero e dagli altri2, il celebre libro quarto dell’Eneide sarebbe più letto in Apollonio3, se questi lo avesse cantato con la divinità dello stile virgiliano, come lo architettò due secoli prima con circostanze più passionate e più vere. Se non che e la imitazione e le adulazioni sono più colpa dello stato di Roma, che di que’ poeti, a’ quali vennero le lettere con le scienze, con la mollezza del vivere civile, e con le discipline rettoriche: e il loro ingegno fu da prima atterrito dalla tirannide, indi innaffiato dannosamente da’ beneficii. E ben Virgilio, Pollione egli altri grandi furono, se non propugnatori della patria, certamente ammansatori di quell’imperadore, non, come altri si crede, con la dolcezza delle sacre muse, ma perchè non avendolo i delitti liberalo dalla coscienza dell’infamia, comperava le lettere quasi testimoni al tribunale de’ posteri, e quest’ambizione lo distraeva in appresso dalle pe-

  1. Catullo, carmen LXII.
  2. Vedili tutti presso Macrobio.
  3. Lib. III, vers. 284, e continua nel lib. IV.