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E da una lettera di Dante novellamente discoperta appare, che, circa l’anno 1316, gli


    rebbe a’ progressi del sapere l’ammetterlo nella pienezza del significato che avrebbe, se tu la enunci isolata. — Dal contesto, ove legasi la terzina, apparisce chiaro che Dante, o intese parlare di quel verisimile poetico, da cui un buon poeta non dee scostarsi giammai, oppure usò di un sottile accorgimento retorico, per disporre il leggitore a prestare credenza a cosa, che pare non meritarla. E infatti, subito dopo quella massima generale, soggiugne:

         Ma qui tacer nol posso; e per le note
    Di questa commedia, lettor, li giuro,
    S’elle non sien di lunga grazia vote,
         Ch’io vidi per quell’aere grosso e scuro
    Venir notando una figura in suso,
    Meravigliosa ad ogni cuor sicuro.

    È manifesto pertanto, che la massima: «Sempre a quel ver ec.» e qui, com’io diceva, artificiosamente annestata per espugnare la incredulità del lettore, e conciliarne la fede alla soprannaturale e grottesca natura di Gerione, che il poeta medita di descrivergli nel venturo canto. Dante volle scemar forza ad una obbiezione, che il lettore gli avrebbe potuto fare, col prevenirla, quasi dicesse: So che non si dee narrare cosa che ha faccia di menzogna; so questa sentenza delle scuole; pure a questa volta non posso acchetarmivi; e giuro, e giuro per la mia Commedia, a te o lettore, che, e’ ti paia pure da non credersi, quanto sto per narrarti è varo. Nota, esser questo altresì un modo efficacissimo a risvegliare l’attenzione e la curiosità di chi legge. — Che Dante poi non annetta senso più lato alla sentenza, ove non bastino le induzioni, abbiamo i fatti, e sono quegli altri suoi versi, a’ quali ho appiccato la presente noia: «E