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- Carissimo e Veneratissimo Donn’Alessandro,
Stefano mi recò ieri la Sua lettera, e di qual consolazione, di qual conforto mi sia stata, non è necessario che glielo dica. Essa non solo mi attestò il bono stato di salute di Manzoni, che Stefano mi confermò in voce, ma mi assicuro anche della lena con cui lavora; e quali lavori! Dio sa quante belle cose vedremo aggiunte alla Morale Cattolica, e con quanto vantaggio del pubblico. Ma a questo non sarà niente minore quello che verrà dai Dialoghi, e per la forma, trattandosi di un genere di cui è così povera l’Italia, e per la sostanza, trattandovisi cose importantissime, di cui forse è ancor più povera. Il Dialogo sul piacere già dallo schizzo che mi ha mandato, intendo che riuscirà magnifico, e se mi pare, che si ci potesse aggiungere qưalche cosa utilmente per isviscerar meglio il soggetto, ho quasi paura a dirglielo, perchè non vorrei impacciarla, menandola per altri sentieri. Ma perchè Ella già vuol che dica, dirò a condizione, che se ciò che soggiungerò Le riuscisse ’d’ingombro o d’impaccio, Ella l’abbia per non detto, e stracciando la lettera vada avanti così, che andrà sicuramente bene e lontano.
La cosa principale mi parrebbe quella di chiarir la natura del dolore (chè il piacere è quasi direi indefinibile), di guisa che, se il Dialogo si intitolasse Del dolore, parmi che l’intitolazione non sarebbe men propria.
E’ dunque parmi da procurare che spicchi bene in che modo il dolore sia una lotta del principio senziente che vuol sentire, contro le difficoltà che incontra ad emettere tutto intiero l’atto naturale del sentimento. Ora per ispiegarmi più brevemente che mi sia possibile, mi permetta che adoperi dei termini scolastici.
Comincierò dal dire che Aristotele con tutta la scuola di stinse giustamente la negazione dalla privazione, chiamando negazione la mancanza assoluta di qualche cosa, e privazione la mancanza di ciò che un ente dee avere per natura acciocchè questa sua natura sia compita.