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lettera a antonio rosmini 143

casione dall’essere la sete citata per esempio dal Verri, si principierebbe da questa.

P. Cosa sente l’uomo che è addolorato per cagione della sete?

T. Sente.... sente il bisogno di bere.

P. Sentire un bisogno? Che si dica, è un altro par di maniche; ma qui si cerca se si dica o se si possa dire con proprietà. Il bisogno non è altro che una relazione, è un concetto della mente, e non si sentono che le cose reali. È una relazione del soggetto (sia) con bere, sia con l’acqua, e per sentirla bisognerebbe sentire quell’acqua medesima, che ap punto è assente dal sentimento.

T. Ma pure l’assetato qualcosa sente, in quanto è assetato.

P. Senza dubbio, altrimenti non potrebbe aver sete.

T. Cosa sente dunque? lo domanderò io a voi.

Qui, con l’ajuto d’un dizionario di medicina, si passerebbe alla descrizione degli effetti che produce negli organi la mancanza del liquido conveniente, e si vedrebbe che la molestia dell’assetato viene dal difetto del sentimento compito di quegli organi.

P. È quello invece che affoga, cosa sente? L’acqua? Sì: ma è nel sentimento dell’acqua il dolore; o è nel sentimento del polmone impedito dal respirare, nel sangue impedito dal circolare, cioè dal non, sentire queste parti nel loro stato naturale, nel loro pieno esercizio?

Si passerebbe ai dolori morali, dove, se non m’inganno, la dimostrazione è ancora più facile. — E, dopo altre osser vazioni, il P. terminerebbe con un conclusum est contra Manichæos. Il T. direbbe che ci vuole una grande smania di cantar trionfo, per servirsi d’un epifonema cosi alieno dalla questione. Ma il P. sosterrebbe d’averlo citato a proposito, perchè il bene e il male inerenti ugualmente all’atto proprio d’una facoltà e resultanti ugualmente dalla forma di essa, è un concetto che repugna a quello d’un provvidentissimo sapientissimo e ottimo, e onnipotente Creatore, o s’accorda invece (per quanto gli errori possono accordarsi insieme) con quello stranissimo come empio, di due princìpi avversi e cooperanti.