Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/189


LIBRO SECONDO 179

da quella banda forte difesa. Ma Ildigero quivi di guardia co’ suoi (toccando per turno quella fazione ad ognuno dei duci) non appena ebbeli veduti inoltrare disordinatamente, va loro incontro e li combatte così appunto com’erano alla rinfusa in marcia, nè dura fatica a sbaragliarli e farne strage. Da ciò nacquero, nè è raro il caso, grida e tumulti entro le mura, al che i Romani accorsero da ogni parte a ributtarne gli assalitori, ed i vinti non guari dopo colle trombe nel sacco retrocedettero ai loro campi. Vitige appigliossi ancora una volta alla frode per dare il guasto a Roma, essendone facilissima da quivi l’espugnazione in causa della molta sua vicinanza alle ripe del Tevere. Conciossiachè gli antichi Romani, fidatisi nell’ostacolo intramesso dal fiume, aveanvi fabbricato con tanta negligenza le mura, che bassissime le vedevi e del tutto sguernite di torri. E tanto più nutrivano lusinga di impossessarsene con ogni agevolezza, in quanto che guardate da scarso numero di gente. Il re gotto adunque persuasissimo della impresa instigò con danaro due Romani domiciliati presso il tempio dell’apostolo Pietro a visitare dopo il tramonto, portando un’otre piena di vino, i custodi là di stanza, ed a mescere loro con ogni mostra di sincera amicizia; nè ancor paghi passino assisi insieme la notte in beverie, versando nel bicchiere ad ognuno di essi il sonnifero da lui avuto. Intanto dall’opposta riva egli teneva già in pronto i guscii per tragittarvi sopra, non appena le guardie fossero vinte dal sonno, turba di barbari forniti di scale e d’ogni altra occorrenza per venire alla espugnazione delle mura. At-