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vere. Per la qual cosa e in pubblico ed in privato tutti stannosi immersi in un vero squallore, con nissun senso di piacer della vita, quasi dal cielo s’aspettino imminente ruina: di non altro in casa, nel foro, nelle chiese parlando ognuno che di miseria, che di calamità, che di qualche prodigioso caso di fortuna recentemente seguito. Questa fu la condizione di ogni singola città. Ma occorre dire quello che ancora manca.

Ogni anno due consoli creavansi a’ Romani, uno in Roma, e l’altro in Costantinopoli. Quegli che a tale dignità era chiamato, doveva spendere più di due mila libbre d’oro per la cosa pubblica. Poco metteva fuori del suo: il più veniva dal pubblico erario secondo la liberalità dell’Imperadore. E come tutto quel denaro serviva a dare spettacoli, a soccorrere poveri, a pagare spezialmente attori di scena, è meraviglia dire quanto da ciò le città si sostentassero. Dacchè però Giustiniano ebbe l’Imperio, per queste cose non vi fu più tempo fisso, poichè o lungamente alcuno ritenne il consolato, o non si videro consolari elezioni. Onde per questo verso ancora gli uomini soffrirono povertà estrema, e perchè l’Imperadore negò a’ sudditi quanto erano avvezzi ad avere, e perchè la fortuna li cacciò de’ posti tutti, e de’ mezzi, onde potevano sussistere. E credo d’avere già abbastanza detto de’ pubblici denari, e delle sostanze degli uomini consolari, sì in comune, che in particolare, che questa peste famelica s’ingoiò; e de’ beni che per mezzo di calunnie rapì ai più ricchi, o ai satelliti suoi stessi, e agli altri ministri; e di quanto rubò ai soldati, sì negli accampamenti, che nella reggia; e