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fare; chè scriveva egli tutto, e fin quello che dovessero decretare i magistrati de’ municipii avendo a pronunciare le loro sentenze. A niuno in tutto il romano Imperio era permesso di liberamente far ragione: con imprudente fasto ogni cosa arrogossi; e di tale maniera giudicò, che uno tanto de’ litiganti udito sentenziava, e voleva che la sua sentenza valesse. Ed era poi notissimo a tutti che non sentenziava già egli giusta l’equità e il diritto, ma per puro turpissimo amore di lucro: non avendo egli, Imperadore qual’era, vergogna di ricevere regali, dappoichè l’avarizia nell’anima sua estinto avea ogni seme di pudore.

Spessissimo anche accadde, che quanto il senato, quanto l’Imperadore medesimo avevano decretato, fosse eseguito in senso contrario. Era il senato null’altro che un simulacro vano, non avente potere alcuno di sentenziare, nè di difendere ciò che fosse onesto. Tutta l’incombenza sua era di empiere gli scanni per una certa apparenza di ciò che l’antica legge comportava. Voleva questa che a nissuno fosse permesso il tacersi; ma l’Imperadore e Teodora prendevano sopra di sè le cose, delle quali occorreva far consulta; e quanto ne avessero essi deliberato valeva. Se poi alcuno non si credette sicuro della causa favorevolmente aggiudicatagli, ancorchè reo, died’egli un premio all’Imperadore, il quale immantinente promulgò una legge a tutti gli antecedenti statuti manifestamente contraria. E se una legge vi fosse stata che alcuno sostenesse abrogata, l’Imperadore non isdegnava di richiamarla in vigore. In questo modo nulla v’avea di certo e di fisso nella