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giorno e due, e così pur la notte; e spezialmente nelle vigilie della solennità, che diciamo Pasqua, usò due giorni vivere d’acqua, e di qualche erba salvatica, e dormire un’ora sola, il rimanente tempo consumando in passeggiare. Che se lo avesse consumato in ben condurre gli affari, certo è che la repubblica sarebbe stata felicissima. Ma delle forze della natura servivasi in ruina de’ Romani, e del loro Stato: le sue veglie, le sue fatiche, i suoi intraprendimenti volgendo a rendere più atroce di giorno in giorno la calamità de’ sudditi; massimamente che, come già dissi, a speculare iniquità era sagacissimo, e sveltissimo ad eseguirle: onde i talenti suoi furono pe’ sudditi una vera peste. E quando trattavasi di operare, mai non cercò la opportunità: meno in quello che faceva sarebbesi cercato vestigio di uso, o di sapienza antica.

Ma qui per non andare all’infinito, moltissime cose tralascerò, poche sole rammentando. Primieramente nulla mai ebbe o curò di quanto alla imperiale maestà convenisse: più presto si mise ad imitare i Barbari nel parlare, nello stare, e nel pensare. Se trattavasi di dare alcuna risposta in iscritto, non ne incaricava il questore, siccome portavane l’uso; ma per lo più prendeva a rispondere a voce, quantunque il parlar suo fosse barbaro. Da ciò venne che la gente affollavasi al tribunale, presentando i casi occorrentile; ma non avea designazione de’ giudici, presso cui le sue cause istradasse. Vi erano i segretarii, a cui per antichissima istituzione spettava l’officio di scrivere quanto di recondito il Principe deliberava: ma ad essi non fu accordato di così