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cosa: e con questi Stati nuovi; nè volsi, che quelli tuoi Signori credessino, che il timore grande mi facessi essere largo promettitore. Ma ora che io temo meno, ti prometto più; quando non temerò punto si aggiugneranno alle promesse i fatti quando bisogneranno; ed avendo io a questi suoi ragionamenti, che furono come io ve gli scrivo, replicato convenientemente, ed essendo rientrati a parlare degli Orsini, e d’accordo, mi parve a proposito dirli come da me: L’Eccellenza Vostra vede quanto liberamente i miei Eccelsi Signori son venuti, e vengono seco; che in sul colmo de’ pericoli suoi mi mandorno a farvi certo del loro animo, e ad assicurarvi di loro; non si curando, che e’ si intendessi per darne reputazione a Sua Eccellenza, e torle alli inimici suoi; vede ancora come hanno tagliata ogni pratica con quelli; hanno aperto le loro strade, e tutto il loro territorio a’ comodi di Sua Signoria, le quali cose sono da stimare assai, e meritano d’essere riconosciute, e tenute a mente; pertanto io ricordo a Vostra Eccellenza che dove si avessi a trattare d’accordo con gli Orsini, o altri di loro, quella non concluda alcuna cosa difforme allo amore dimostroli, e alle parole buone, che li ha sempre usate. A che Sua Eccellenza rispose, non ci pensare punto: Tu sai, che ci è stato Mes. Antonio da Venafro da parte di quelli Orsini, e fra molte altre sue novelle, che mi ha dette, mi metteva partito avanti di mutare Stato in Firenze; a che io gli risposi, che lo Stato di Firenze era amico del Re di Francia del quale io ero servitore, e che tale Stato non mi aveva mai offeso; anzi, che era meglio, che io ero tuttavolta per capitolare seco. A che lui disse non capitolare a nessun modo, lasciami andare, e tornare, e faremo qualcosa di buono. Ed io per non gli dare appicco dissi, noi siamo tanto avanti, che non può stornare: pertanto io ti dico di nuovo, che io sono per udire, e intrattenere costoro, ma non mai per concludere contro a quello Stato, se già e’ non me ne dessi occasio-