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i nimici e proposto premj a chi la riguadagnava. Io non credo che sia fuora di proposito aggiugnere a questo ragionamento quelle cose che intervengono dopo la zuffa, massime sendo cose brevi e da non le lasciare indietro e a questo ragionamento assai conformi. Dico, adunque, come le giornate si perdono o si vincono. Quando si vince, si dee con ogni celerità seguire la vittoria e imitare in questo caso Cesare e non Annibale; il quale, per essersi fermo da poi ch’egli ebbe rotti i Romani a Canne, ne perdè lo imperio di Roma. Quello altro mai dopo la vittoria non si posava, ma con maggiore impeto e furia seguiva el nemico rotto, che non l’aveva assaltato intero. Ma quando si perde, dee un capitano vedere se dalla perdita ne può nascere alcuna sua utilità, massimamente se gli è rimaso alcuno residuo di esercito. La commodità può nascere dalla poca avvertenza del nemico, il quale, il più delle volte, dopo la vittoria diventa trascurato e ti dà occasione di opprimerlo; come Marzio Romano oppresse gli eserciti cartaginesi, i quali, avendo morti i duoi Scipioni e rotti i loro eserciti, non stimando quello rimanente delle genti che con Marzio erano rimase vive, furono da lui assaltati e rotti. Per che si vede che non è cosa tanto riuscibile quanto quella che il nemico crede che tu non possa tentare, perchè il più delle volte gli uomini sono offesi più dove dubitano meno. Debbe un capitano pertanto, quando egli non possa fare questo, ingegnarsi almeno con la industria che la perdita sia meno dannosa. A fare questo ti è necessario tenere modi che il nemico non ti possa con facilità seguire, o dargli cagione ch’egli abbia a ritardare. Nel primo caso, alcuni, poi ch’egli hanno conosciuto di perdere, ordinarono agli loro capi che in diverse parti e per diverse vie si fuggissono, avendo dato ordine dove si avevano dipoi a raccozzare; il che faceva che il nemico, temendo di dividere l’esercito, ne lasciava ire salvi o tutti o la maggior parte di essi.