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192 | dell'arte della guerra |
trovando chi gli sovvenga e non avendo tanta virtù che sappiano ridursi insieme a fare una cattività onorevole, sono forzati dalla necessità rompere la strada, e la giustizia è forzata spegnerli.
Cosimo. Voi m’avete fatto tornare quest’arte del soldo quasi che nulla, ed io me l’aveva presupposta la più eccellente e la più onorevole che si facesse, in modo che, se voi non me la dichiarate meglio, io non resto soddisfatto, perchè, quando sia quello che voi dite, io non so donde si nasca la gloria di Cesare, di Pompeo, di Scipione, di Marcello, e di tanti capitani Romani che sono per fama celebrati come Dii.
Fabrizio. Io non ho ancora finito di disputare tutto quello che io proposi, che furono due cose: l’una, che un’uomo buono non poteva usare questo esercizio per sua arte; l’altra, che una Repubblica o uno Regno bene ordinato non permesse mai che i suoi soggetti o i suoi cittadini la usassino per arte. Circa la prima ho parlato quanto mi è occorso; restami a parlare della seconda, dove io verrò a rispondere a questa ultima domanda vostra, e dico che Pompeo e Cesare, e quasi tutti quegli capitani che furono a Roma dopo l’ultima guerra Cartaginese, acquistarono fama come valenti uomini, non come buoni; e quegli che erano vivuti avanti a loro, acquistarono gloria come valenti e buoni; il che nacque perchè questi non presero l’esercizio della guerra per loro arte, e quegli ch’io nominai prima, come loro arte l’usarono. Ed in mentre che la Repubblica visse immaculata, mai alcuno cittadino grande non presunse, mediante tale esercizio, valersi nella pace, rompendo le leggi, spogliando le provincie, usurpando e tiranneggiando la patria e in ogni modo prevalendosi; nè alcuno d’infima fortuna pensò di violare il sacramento, aderirsi agli uomini privati, non temere il Senato, o seguire alcuno tirannico insulto per potere vivere, con l’arte della guerra, d’ogni