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libro primo | 187 |
cose, e conoscerne molte altre, le quali, senza esserne domandate, non avrebbe mai conosciute.
Cosimo. Io voglio tornare a quello che voi diceste prima, che l’avolo mio, e quegli vostri avrebbero fatto più saviamente a somigliar gli antichi nelle cose aspre, che nelle delicate; e voglio scusare la parte mia, perchè l’altra lascerò scusare a voi. Io non credo ch’egli fusse ne’ tempi suoi uomo, che tanto detestasse il vivere molle, quanto egli, e che tanto fusse amatore di quella asprezza di vita che voi lodate; nondimeno e’ conosceva non potere nella persona sua nè in quella de’ suoi figliuoli usarla, essendo nato in tanta corruttela di secolo, dove uno che si volesse partire dal comune uso, sarebbe infame, e vilipeso da ciascheduno. Perchè se uno ignudo di state sotto il più alto sole si rivoltasse sopra alla rena, o di verno nei più gelati mesi sopra alla neve, come faceva Diogene, sarebbe tenuto pazzo. S’uno, come gli Spartani, nutrisse i suoi figliuoli in villa, facessegli dormire al sereno, andare col capo e co’ piedi ignudi, lavare nell’acqua fredda, per indurgli a poter sopportare il male, e per fare loro amare meno la vita, e temere meno la morte, sarebbe schernito, e tenuto piuttosto una fiera che uno uomo. Se fusse ancora veduto uno nutrirsi di legumi, e spregiare l’oro, come Fabrizio, sarebbe lodato da pochi, e seguito da niuno. Talchè sbigottito da questi modi del vivere presente, egli lasciò gli antichi, e in quello che potè con minore ammirazione in imitare l’antichità, lo fece.
Fabrizio. Voi lo avete scusato in questa parte gagliardamente, e certo voi dite il vero; ma io non parlavo tanto di questi modi di vivere duri, quanto di altri modi più umani, e che hanno con la vita d’oggi maggiore conformità, i quali io non credo che ad uno che sia numerato tra’ principi d’una città, fusse stato difficile introdurgli. Io non mi partirò mai con esemplo