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Da voi non nacqui indarno, e di sì strana
Beltà non fui per mio ludibrio adorna,
Un mio prego ascoltate; e quando il nume
Di Giove e il poter vostro a voi nol vieti,
In mia sola mercè dategli effetto,
Sì che la cura io domi, onde son morsa
Veracemente, dacchè un uom mortale
Me vinse e il mio candido letto ascese.
Ahi, da quel dì che il ferro ei strinse, e sopra
Minaccevol mi stette (onde, se volli
Dalle irate sue mani uscire illesa,
Abbracciar gli ebbi le ginocchia, e il giuro
Che gli Dei lega profferir, per cui
Nulla nel capo suo, ne’ suoi compagni
Co’ filtri miei più macchinar dovessi)
Ahi, da quel dì, quanto sia torto e vano
Questo poter che da voi m’ebbi, appresi!
E che mi giova, ohimè, ch’io dell’umane
Sembianze spogli e di ferine cuoja
Stringa chi nulla, fuor che nell’aspetto,
Dissimigliante è dalle fere? Eccelsa
Virtù davvero inchinar capi indegni
Di mirar la tua faccia, etereo Sole!
Gloria sublime e invidiabil dote
Di setole innasprir, coprir di velli
Chi di pecora vile e di sannuto