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XXVIII.

IL DIREDATO.


ARGOMENTO.


Uno diredato imparò medicina. Essendo impazzito il padre e sfidato dagli altri medici, egli datogli un rimedio, lo risana, ed è riaccettato in famiglia. Dipoi impazzisce la madrigna: gli è imposto di risanarla: egli dice che non può, ed è un’altra volta diredato.


Non è nuovo, o giudici, nè strano questo che ora fa mio padre, nè ora la prima volta ei si sdegna così, ma è sua usanza di aver ricorso a questa legge e di venire a questo tribunale. Bensì nuova è la mia sventura: che io non ho alcuna colpa, e sto in pericolo d’avere una pena per l’arte mia che non può ubbidire a tutto ciò che egli impone. E quale stranezza è maggiore di questa, medicare per comando, non secondo il potere dell’arte, ma secondo il volere del padre? Vorrei che la medicina avesse tale un rimedio che potesse guarire non pure i pazzi, ma anche quelli che si sdegnano senza giusta cagione, che così guarirei ancora quest’altra malattia di mio padre. Adesso la pazzia gli è passata, e l’ira gli è cresciuta: e quel che è peggio, con tutti gli altri è savio, e con me solo che l’ho curato è pazzo. E vedete qual mercede io ricevo della mia cura, sono diredato un’altra volta da lui, nuovamente fatto stranio alla famiglia, sono stato raccettato per breve tempo quasi per essere ricacciato con maggiore ignominia. Io nelle cose possibili non aspetto comando: e testè senza chiamata venni al soccorso: ma quando è caso del tutto disperato, io non ci voglio neppure metter mano. E con questa donna a ragione io non mi arrischierei; perchè penso che mi farebbe mio padre, se io sbagliassi, quando io non ho neppur cominciata la cura, ed ei mi ha diredato. Mi dispiace