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dialoghi dei morti. | 295 |
Lampico. Ecco, ho gittata la ricchezza.
Mercurio. Getta anche la grandigia, o Lampico, e la superbia: chè la barca n’affonderebbe.
Lampico. Almeno ch’io m’abbia il diadema e il paludamento.
Mercurio. Niente: giù anche questo.
Lampico. Sia. Che più? Ho lasciato ogni cosa, come vedi.
Mercurio. E la crudeltà, e la stoltezza, e la violenza, e il furore, tutto questo devi lasciare.
Lampico. Eccomi spoglio di tutto.
Mercurio. Ora entra. E tu ben tarchiato e carnuto chi se’?
Damasia. Damasia l’atleta.
Mercurio. Ben mi parevi: mi sovviene d’averti veduto spesso nelle palestre.
Damasia. Sì, o Mercurio: e ricevimi, che son nudo.
Mercurio. Nudo no, o caro mio, con tante carni addosso: però deponile, chè faresti andar giù la barca se vi mettessi pure l’un de’ piedi, ma getta coteste corone e i bandi delle tue vittorie.
Damasia. Vedimi, or sono veramente nudo, e di tanto peso quanto gli altri morti.
Mercurio. Così leggiero sta bene. E tu, o Cratone, che hai gettato via le ricchezze, le morbidezze ed il lusso, non portare la veste in cui ti han sepolto, nè le dignità degli antenati: lascia e nobiltà e gloria e onori avuti dai cittadini, e iscrizioni poste alle tue statue, e il vanto di avere un gran sepolcro: chè tutte queste cose pesano anche a ricordarle.
Cratone. Con dolore, ma le getto; come posso altramente?
Mercurio. Caspita! e tu così armato che vuoi? a che porti cotesto trofeo?
Soldato. Fui vincitore in battaglia, o Mercurio; m’illustrai, e la città mi diede questo onore.
Mercurio. Lascialo sulla terra il trofeo: quaggiù è pace, e non bisogna armi. E costui grave al vestimento, questo superbo, questo accigliato e pensoso, chi è egli, con sì gran barba sciorinata sul petto?
Menippo. Qualche filosofo, o Mercurio; o piuttosto qualche