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dialoghi marini. | 267 |
dilavata; nella quale che bellezza c’è, se non c’è un po’ d’incarnato?
Galatea. Se io son dilavata, almeno ho un amante; ma voi non avete un can che vi voglia bene, nè pastore, nè marinaio, nè nocchiero. Ma Polifemo fra le altre cose è anche musico.
Dori. Zitto, o Galatea; l’udimmo cantare quando testè venne a farti la serenata. O Venere cara, pareva un asino che ragghiava. E che sorte di cetera aveva egli? Un teschio di cervo scarnato: le corna eran le braccia della cetera: ei le aveva congiunte, vi aveva messe le corde, e senza tirarle coi bischeri, vi sonava e vi cantava rozzo e scordato: ei muggiva ad un tuono, e il colascione rispondeva a un altro: e noi non potevamo tener le risa all’udire quel rantolo amoroso. Neppure Eco, che è sì ciarliera, voleva rispondere a quel gorgogliare, e vergognavasi di parer imitatrice di così aspra e ridicola canzone. Il zerbino si portava in braccio un orsacchio, a guisa di cagnoletto, tutto peloso come lui. E chi vorrà invidiarti, o Galatea, cotesto innamorato?
Galatea. E tu, dimmi il tuo, o Dori, che sia più bello, e sappia meglio cantare e sonare la cetera.
Dori. Io non ho innamorato, io, nè mi vanto d’essere vagheggiata da alcuno. Cotesto Ciclope che puzza di caprone, che cibasi di carni crude, come dicono, e che mangia i forestieri che gli capitano, sia tutto tuo, e tu sii tutta sua.
2.
Il Ciclope e Nettuno.
Ciclope. O padre, vedi che m’ha fatto uno scellerato di forestiero, m’ha ubbriacato, e, mentre io dormivo, m’ha accecato.
Nettuno. E chi è stato sì ardito, o Polifemo?
Ciclope. Uno che prima disse chiamarsi Nessuno; ma poi che mi scappò, e fu in salvo, disse che aveva nome Ulisse.