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dialoghi degli dei. 239


Vulcano. Quel bimbo ha fatto questo, se appena si regge, e sta nelle fasce?

Apollo. Lo saprai, o Vulcano, se pur ti viene vicino.

Vulcano. Mi è venuto attorno.

Apollo. Ed hai tutti gli istrumenti? Non ne hai perduto nessuno?

Vulcano. L’ho tutti, o Apollo.

Apollo. Guardali meglio.

Vulcano. Per Giove! Le tanaglie non vedo.

Apollo. Le troverai nelle fasce del fanciullo.

Vulcano. È così leggiero di mano, che ha imparato a rubare in corpo alla mamma!

Apollo. Non l’hai udito a parlare, e come ha lo scilinguagnolo spedito. Ei vuole anche render servigi a tutti. Ieri avendo sfidato Amore alla lotta, tosto lo vinse, facendogli, non so come, mancare i piedi: e mentre Venere lo lodava della vittoria e l’abbracciava, le rubò il cinto; e lo scettro a Giove, che ancor se ne ride: gli avrebbe preso anche il fulmine se non fosse grave troppo e con molto fuoco.

Vulcano. Questi è un nuovo miracolo di fanciullo.

Apollo. Ed aggiungi che è già anche musico.

Vulcano. E che pruova n’hai?

Apollo. Trovata a caso una testuggine morta, ei ne compose uno strumento. Vi adattò i manichi e li congiunse, poi vi fece i bischeri, vi pose il ponticello, e su di esso distese le corde, e sonava con tanta dolcezza, o Vulcano, e con tanta maestria, che faceva invidia anche a me, che son vecchio ceteratore. Diceva Maia che neppur la notte ei rimane in cielo, non sa trovar posa, scende sin nell’inferno certamente a rubacchiarvi qualche cosa. Ha l’ali ai piedi, ed in mano una verga di gran virtù, con la quale conduce e guida all’orco le anime dei morti.

Vulcano. Gliela diedi io come un balocco.

Apollo. Ed ei te ne ha ricompensato con le tanaglie.

Vulcano. Appunto me ne ricordi: vo a riprenderle, se, come tu di’, gliele troverò nelle fasce.