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dialoghi degli dei. | 233 |
Ganimede. O uomo, non eri tu aquila testè, che volando mi ciuffasti in mezzo al gregge? Come ti sono scomparite quelle ali, e sei divenuto un altro?
Giove. I’ non sono nè uomo, nè aquila, o fanciullo; ma il re di tutti gli Dei, che per poco tempo mi son trasformato.
Ganimede. Che dici? se’ tu Pane? E come non hai la sampogna, nè le corna, nè le cosce pelose?
Giove. Solo quel dio tu conosci?
Ganimede. Sì: e noi gli sacrifichiamo un caprone che ha le più grosse coglie, e proprio innanzi alla spelonca dove egli abita. Tu mi pari che sei un ruba-fanciulli.
Giove. Dimmi: e di Giove non udisti mai il nome, non vedesti mai l’ara sul Gargaro? di colui che piove, che tuona, che fa i lampi?
Ganimede. Tu se’ colui che testè fece cader tanta grandine, che abiti in su in cielo, come dicono, che fai quei rumori, ed a cui il babbo sacrificò un ariete! E che male t’ho fatto io, o re degli Dei, che mi hai rapito? Ah! forse i lupi mi sbraneranno le pecore, che sono tutte sbrancate.
Giove. E pensi ancora alle pecore, or che sei immortale, e starai sempre qui con noi?
Ganimede. Che dici mai? E non mi poserai sull’Ida oggi stesso?
Giove. No: chè invano mi sarei tramutato di dio in aquila.
Ganimede. Oh, il babbo mi anderà cercando, e si sdegnerà non trovandomi: ed infine io sarò battuto per avere abbandonata la greggia.
Giove. E dove ti vedrà egli?
Ganimede. No, no: i’ voglio babbo mio. Se mi lasci andare, io ti prometto che ei ti sacrificherà un altro ariete per mio riscatto. N’abbiamo uno di tre anni, così grande, che guida esso la greggia.
Giove. Che fanciullo semplice ed innocente! e parmi ancora troppo fanciullo! Ma, o Ganimede, lascia stare tutte coteste cose, e scòrdati della greggia e dell’Ida. Tu che già sei uno de’ celesti, farai gran bene di qui ed al tuo babbo ed alla patria tua: ed invece del cacio e del latte, gusterai l’ambrosia, e berai il nèttare, e verserai bere a noi altri. E la più bella