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intorno la vita e le opere di luciano. 163

chè è una declamazione rettorica noiosa tra i vivi, noiosissima tra i morti. Solamente in capo ad un retore poteva entrare l’idea di fare Alessandro ed Annibale dicitori di due magre dicerie. Celesta specie di paragoni sono o da Plutarco, o da fanciulli.

XCV. I Dialoghi delle Cortigiane non paiono una scrittura, ma un parlare vivo e vero, schiettamente popolare, ed ateniese: sono quindici scene della vita delle cortigiane d’Atene. Dovunque i Greci potevano vagheggiare e cogliere un fiore di bellezza, essi adoperavano l’arte per coltivare quel fiore. Onde questi dialoghi non sono fatti ad eccitamento di lascivia, che sarebbe fine sozzo ed indegno di Luciano, ma per uno scopo di arte, per godere della bellezza che si rinviene anche nell’amore sensuale. Quindi queste cortigiane non fanno schifo, nè orrore, nè pietà, ma si fanno udire con certa compiacenza, e talune t’interessano; come la Mirtina, che si crede abbandonata dall’amante; la Musetta, fanciulla di diciotto anni, innamorata d’un garzone sì perdutamente, che non vede nè vuole altro che lui; o la Joessa affettuosa e a torto strapazzata dall’amante; o la Innide, a cui un soldato vantatore racconta di avere tagliato, e squartato, e infilzato un capo su la lancia, ed ella inorridisce e vassene; e quei la chiama, promette, prega, confessa che ha detto una bugia, e pure non la persuade. L’indole femminile, e delle femmine cortigiane, è ritratta al vivo: e i Greci solevano compiacersi di queste dipinture della cortigiana non sozza e sfacciata, ma buona od amorosa. Così, credo io, doveva dipingerle Menandro, perchè Terenzio, che l’imitò e copiò, così dipinge la Gliceria nella sua Andriana, che pare simile alla Mirtina o alla Joessa. Non faccia maraviglia adunque che Luciano artista, per uno scopo d’arte, imitando a modo suo i