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Lepre.
Miseria e infelicità grandissima, se già e' non si son mutati di natura da quel tempo in qua che io era uomo.
Ulisse.
E quale è la cagione, Lepre?
Lepre.
Ohimè, oh! io non sentiva mai, mentre ch'io era uomo, altro che rammaricarsi e dolersi amarissimamente l'un con l'altro.
Ulisse.
Io arò fuggito Scilla e arò dato in Cariddi. Colui era medico; per la qual cosa e' non praticava mai se non con malati e con malcontenti; e costui, per quanto io posso penetrare, non dovette praticar mai se non con disperati.
Lepre.
Queste cose mi erano spesso cagione di tanta doglia, che io sarei innanzi voluto stare in un bosco dove io non avessi mai veduto pedate d'uomo: e certamente l'avrei fatto, se la natura umana l'avesse comportato. Ma tu sai che l'uomo ha bisogno di tante cose, che non può vivere solo se non con mille incomodità.
Ulisse.
E che? tu non senti rammaricarsi forse anche de gli animali, eh?
Lepre.
Egli è il vero, che quando quei de la specie mia medesima hanno qualche passione, che io gli conosco a la voce; perchè egli è naturale a ciascuno animale il manifestar con la varietà del suono de la voce se egli ha allegrezza, o dolore: ma queste voci così naturali mi dimostrano solamente il dolor di quegli in generale; il qual modo di dolersi è molto più comportabile che quel de l'uomo, che, oltre al dolersi con sospiri e con accenti maninconici e mesti, accresce, col narrare le sue miserie e la cagione del suo dolorsi, bene spesso a chi lo ode molto più la compassione. Ohimè, oh! io non sentiva mai (oltre ai sospiri che getta naturalmente chi ha maninconia) raccontare altro che omicidj, tradimenti, latrocinj, assassinamenti e impietà sì crudeli che facevano l'uno a l'altro gli uomini, che il più de le volte mi dava maggiore affanno la compassione d'altrui, che non faceva la pietà di me stesso.
Ulisse.
Or dimmi (se ti piace) che stato fu il tuo mentre che tu vivesti uomo?
Lepre.
Io ne mutai tanti, che io non saprei qual ti dire. Ma che ti muove a voler così sapere qual fu lo stato mio?