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130 | Il Giobbe |
Per la campagna abbandonata e scura
Le stanche braccia un nero arbore ergea,
Che dal gelo colpito e dall’arsura
Ogni fronda, ogni umor perduto avea;
Squallido, ischeletrito esso pur dura
All’aure dolci, a la procella rea;
Fischia beffardo in tra’ suoi rami il vento,
Ed ei mormora al ciel questo lamento:
O tenebroso spirito
Che tra’ miei rami sibili,
Perchè m’irridi tu?
Il so, che al novo april tutte già fremono
L’erbe e le fere al ceppo mio dintorno;
Il so, che alle divine aure del giorno
Il tronco mio non s’ornerà mai più!
Eppure un dì levai giovani e snelli
Quest’irti stecchi vestiti di fiori,
E con te, vecchio Sol, ch’or mi flagelli,
Fra nidi e canti rinnovai gli amori.
E tu pur, che col fischio or mi molesti,
Aura scortese, e in turbine ti cangi,
Tu com’io tremi a’ tuoi baci sapesti.
Ed io seppi, infedel, come tu piangi.