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interludio xiii

promettendo ai credenti quell’ottimo affare che era il paradiso, come avrebbe potuto illudersi il giovinetto scrittore che il nuovo vangelo Dossiano avrebbe fatto breccia in cuori induriti dalla dissuetudine del bene vero, teorizzando soltanto? Egli ha fatto dunque seguire alla teoria predicata l’esempio pratico di un esempio in quella Colonia Felice, che, come tutti hanno ora naturalmente ricordato, Giosuè Carducci definiva dal suo primo apparire come la più ampia e vigorosa concezione di romanzo della nuova Italia. Ma poichè l’ottimista era insieme un pessimista, ed il credente uno scettico, egli definiva questa dimostrazione pratica della sua teorica come una utopia. Senonchè, che cosa è l’utopia dell’oggi, se non la verità del domani? Dall’unità d’Italia alla radiotelegrafia, dalla navigazione aerea al costituzionalismo turco, il mondo intero ne è la quotidiana prova vivente ed agente; e, se già la Colonia felice del nostro utopista veniva citata nelle aule parlamentari come un esempio appunto da seguire, se non altro nella concezione dei nostri nuovi sistemi penali, invano il Dossi, nella Diffida con cui accompagnava l’edizione del 1883, impressionato com’era dalle teorie allora dischiuse della nuova scuola criminalistica italiana — la quale, col portare certi veri non nuovi all’eccesso, cadeva nel falso — dichiarava che la Colonia Felice era scientificamente uno sproposito, poichè nè il male insegna il bene, nè la giustizia procede dall’utilità, nè la pena di morte è inutile, quindi ingiusta. Pure rinnegata così dal suo autore, la Colonia Felice rimaneva un libro tanto commovente, da riuscire opera non scritta soltanto, ma fatta e facente. Così, indarno — dopo che Manzoni, negando il romanzo storico, era riuscito a dimostrare che era stato capace dell’impossibile — il