mie, noi, caviamo volontieri il berretto dinanzi
a un riccaccio. Pare che l’aureo trìpode basti a
creare l'oràcolo ; al dovizioso, il miglior posto a tàvola, al dovizioso una turibulatura continua, turibulatura poi, notisi bene, da parte
di gente che non ha da sperare (ne spera)
di far a mezzo con lui, di rosicchiargli almen
qualche cosa.
E invero — che diàmine, mai, Daniele, di
giunta alla paga, dava al Proverbio? Ma neanche un mazzo di lordi. Esso contàvagli le sue
ottocento lire della tariffa nò più nò meno di
(icrvasoni, il figlio del calzolajo, il facitore di
pensi. Ed il Proverbio, che poteva da lui improméttersi ? Nulla, ripeto. Finiti, o dato un
taglio a* suoi studi, Izar prenderòbbesi la porta
non gli lasciando che de* ricordi morali, qualche panca scolpila, o, tull’al più, le sue care
sembianze da rompinocciuole, in fotografia. Pure, Proverbio, smarriva la testa nel giallo splendore del denaroso discépolo, vi si spappolava
entro, chiamava Daniele il suo cucco ; gli avrebbe, se chiesto, regalala la sua dentiera perché
si spassasse a sconnètterla. Ed era bello, sapete, il vederlo questo gran direttore, quando,
la doménica, svoltava nel giardino il tiro a
due della ex-mercantessa, (piando i due servitori in brache di felpa rossa, panciotto verde,
àbito pavonazzo, precipitavano dal lor ballalojo,
sul quale tenèvali la fame ed una boria crudele.... Elie spreco d’incenso ! che su e giù di
sollielti !... Proverbio produceva una flessibilità
da meravigliarne Arlecchino ; ei si piegava, ei
si piegava e naluralmenle allora quello scimmiotto di un Daniele rinveniva, gonfiava come
un pane biscotto inzuppato.
A noi tuttavìa le arie e il pieno borsello
d Izar non facèan nè caldo nò freddo. Noi, son