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Panche di scuola 59

mie, noi, caviamo volontieri il berretto dinanzi a un riccaccio. Pare che l’aureo trìpode basti a creare l'oràcolo ; al dovizioso, il miglior posto a tàvola, al dovizioso una turibulatura continua, turibulatura poi, notisi bene, da parte di gente che non ha da sperare (ne spera) di far a mezzo con lui, di rosicchiargli almen qualche cosa. E invero — che diàmine, mai, Daniele, di giunta alla paga, dava al Proverbio? Ma neanche un mazzo di lordi. Esso contàvagli le sue ottocento lire della tariffa nò più nò meno di (icrvasoni, il figlio del calzolajo, il facitore di pensi. Ed il Proverbio, che poteva da lui improméttersi ? Nulla, ripeto. Finiti, o dato un taglio a* suoi studi, Izar prenderòbbesi la porta non gli lasciando che de* ricordi morali, qualche panca scolpila, o, tull’al più, le sue care sembianze da rompinocciuole, in fotografia. Pure, Proverbio, smarriva la testa nel giallo splendore del denaroso discépolo, vi si spappolava entro, chiamava Daniele il suo cucco ; gli avrebbe, se chiesto, regalala la sua dentiera perché si spassasse a sconnètterla. Ed era bello, sapete, il vederlo questo gran direttore, quando, la doménica, svoltava nel giardino il tiro a due della ex-mercantessa, (piando i due servitori in brache di felpa rossa, panciotto verde, àbito pavonazzo, precipitavano dal lor ballalojo, sul quale tenèvali la fame ed una boria crudele.... Elie spreco d’incenso ! che su e giù di sollielti !... Proverbio produceva una flessibilità da meravigliarne Arlecchino ; ei si piegava, ei si piegava e naluralmenle allora quello scimmiotto di un Daniele rinveniva, gonfiava come un pane biscotto inzuppato. A noi tuttavìa le arie e il pieno borsello d Izar non facèan nè caldo nò freddo. Noi, son