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avèa mai opposto alle sue sesquipedali baggianate; tuttavìa, riavùtosi e, ad ogni buon conto, tappàtami con un manuscristi la bocca:

— Il pero — disse — è una pianta moderna — Poi, si alzò: gli scolaretti, egualmente.

— Questi — mi avvertì egli allora nell indicarmi lo spilungone che poco prima dettava — è il signor maestro di terza. E sarà il vostro, Etelredi. Lei pói — aggiunse — carissimo Ghioldi, favorirà di avere molta e molta pazienza, qui, col signorino.... È figlio del conte Carlo Etelredi.... Molti riguardi, capisce?

— E quando non ne ho forse avuti? — domandò il Glioldi, arrossendo.

— Eh! non si scaldi. Ella, fraintende. Dicevo di andare adagio col ragazzo.... nient’altro. Bisogna abituarlo, al lavoro, ma, lentìssimamente. N’è vero, Guido? — e mi offerse una manata di caramelle.

— Grazie.

— Dunque — continuo egli ritirando, spazzata, la mano e con l’altra sfregàndola come a frullar cioccolata — siamo inlesi. Guido, Obedienza. Ragazzi mièi, grammàtica e calligrafia. — Quindi, partì.

IV.

Io, sgranocchiando i confetti del direttore, mi era seduto nel seggiolone di lui. Ghioldi, uscito quello, mi si appressò, mi fe’ una carezza e: — siate buonino come siete bello — mi disse. — Ora, dò il còmpito ai vostri signori compagni, poi, faremo due chiàcchiere tra mè e voi. — Detto il che, giustàndosi l’occhialino, riappuntò il naso alla scolaresca.