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40 | l’altrieri |
ogni uscio smorfie e cerimonie pel passo, di condurci al suo studio.
Oh! che studio: il più lustro ch’io vedessi mai! Salvo che nel soppalco, macchialo da certi segni che parèvan di tappi e di zaffate di vino, io mi specchiava dovunque; e nelle pareti a stucco e nel pavimento alla Veneziana — a propòsito del quale domando io se è un gusto davvero quello di stare sempre lì lì per rompersi una vèrtebra — e nei mòbili a lùcido e in due gran busti di gesso verniciati da marmo Cicerone ed Orazio dal lusinghiero, innocentino sorriso.... Ipocritoni!
E il signor Proverbio ci avvicinò delle sedie coperte di sdrucciolèvole pelle — sedie cedèvoli come toppi di legno. Un po’ di gonfiatura, poi, la porta si schiuse:
1.° A un servitorello, tosato al par di un barbino di primavera, che entrava reggendo un vassojo con aque concie, parte giallògnole e parte rossigne;
2.° Ad una donnuccia vestita di una lanetta, sorella, credo, alle due tende tessute a farfalle dello studiolo — una donnuccia che avèa della chinesina e pei capelli strappati all’indietro e per gli occhi a màndorla e per la tentennante andatura, effetto, là in Pagodìa, di piedi strozzati entro scarpine di porcellana; quà, di qualche osso fuori di casa.
— La è la nostra massaja! — esclamò il direttore pigliàndola per un dito e presentàndocela come il cavallerizzo fà di una Miss sfondatrice di cerchi incartati. — Mia moglie.... Gemma. —
Inchino generale: altra incensata. Mentre tìtubo ancora a fare la scelta tra le due sorta di aque tinte, il signor Giosuè, battendomi una spalla, vuole ch’io lo inscriva pel mio più buo-