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Panche di scuola | 33 |
saccoccia incartato ed il sorriso stradoppio: mia madre, invece, figlia di un generale, sorella di un colonnello (non oso dir moglie di un capitano, chè babbo non lo era che della milizia cìvica) vedèvami — intanto ch’io forse sognava di un cavallo di legno a mòbile coda — su un vero e vivìssimo bajo, in una montura rossa dagli aurei agrimani, con un pennacchio bianco, sciàbola che ticchettava, brioso, galoppando, mandando in cìmberli tutte le gonne del corso. E questo, a propòsito di un brillante avvenire. Siccome peraltro v’ha in ogni cosa del nero — il che, tra noi, egregiamente serve a far risaltare i colori — così, anche un lumacone di uno zio canònico, unto come la ghiotta, tirava sopra di me a suo modo, somme e moltìpliche. Lo spaventacchio! Io ne temeva i baci, biasciosi, tabaccati, come gli scappellotti: intravedùtolo a pena, battèvomela. Ed egli veniva ogni lauto da noi, sempre con un involto di nuove ragioni ch’egli spiegava su pel tappeto, magnificàvane la qualità, il prezzo.... In poche parole, voleva ch’io mi scambiassi in un lavampolline. Io! pensate. Con il coltello strangolatojo, colla triste sottana, con l’O sulla coccia!
Ma, foglie-e-frasche! lasciando dir tutti, filosoficamente russavo. A che buono scaldarmi? Senza il mio visto, già, i grandi lor piani potèvan servire a stoppar buchi da toppe. Dunque, se ben volentieri accettavo ogni presente dalla parenterìa, sbudellando i bussolotti di babbo, rompendo gli schioppetti di mamma, fondendo le croci, i vèscovi di peltro e gli altri utensili da altarino di zio, quanto a digerire un consiglio, a elèggere una strada, oh! non mi si trovava mai a tempo.
E sì che il brodo in cui mi cuocevo era il
Dossi | 3 |