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Tesoreita 351 I)en. Don apparteneva alla inanima di Tesorelta ; un levrierino grigio, svelto, dal lungo muso ; di quelli che bubbolano anche di mezza state e sembrano avere indosso una perpetua pulce. Don, co' suoi improvvisi abbaiamenti a degl’invisìbili mici, con le sue corse a ficcacollo per poi subitamente restare, in sospetto, le orecchie tese, uno zampino levato, divertiva a crcpar dalle risa il pacìfico e vecchio Teli — un bracco. Bene, Don covava ruggine per Tesoretta. Quando, la prima volta, un rottame di zùcchero passò dalle dita della sua padrona nelle ta- scuece della puttina, maraviglialo, olfeso, adocchiò : alla seconda, alla terza, guai sordamente. Privarlo dello zùcchero suo ! Dio-cane ! Che altro. fuorch’esso, gli rimaneva, ora, che un ukase municipalesco, appiccandogli una inusoliera, una cinghia alla strozza, e per giunta, una corda, togliòvagli di fiutare.... le belle ? Den fece un groppo al codino — quindi d’allora in poi si trovarono per la casa gheroni strappati dalle sottane di Tesorelta, si raccolse un cappellino di lei nel mondezzajo, si scoprì, rifacendo la nanna della bambina un.... Scusa ! non ti vedevo, Bigia. E lì, quale tirata di orecchi ! Den fu rinchiuso nello stanzino cui egli avrebbe dovuto prima ricórrere, e il guàttero passandovi presso due ore dopo con una gazzetta in mano, stette in forse — atterrito da un rabbioso lamento — di aprirlo. Intanto, nella sala a terreno della sua mamma, si rannicchiava sul fondo di un poltro none la bimba. Le manine di lei stavano appiattate in un manicotto di topo-bianco ; sul manicotto posava un libro. Pur non guardava. L’ànima