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346 GOCCI E D’iNCHIOSTRO freccia c chi se Pappone all'orecchio e chi ’o confronta con quel del vicino. E un servi loro, pomposamente vestilo di un damasco scarlatto, si appressa in grande sussiego al barocco l*a- ragginoso orologio, ne apre il cristallo e con un dito guida la pigra lancia sulla dodicèsima ora ; poi, dà un buffetto al pèndolo, che rappresenta il gaudente faccione del sole. Ma, con esso, si riavvla anche la noja. I militari fuori di corso riprendono a passeggiare su e giù e ad incrociarsi lisciandosi i bafli ; i mònaci e i preti a sbadigliare tacitamente, a stabaccare, a grattarsi ; i signori in marsina, che non sedettero a tempo, a non sapere più su quale gamba appoggiarsi. lui io, cercalo inutilmente di entrare in uno stanzone tulio marmi e colonne, in mezzo al (filale, intorno a un braciere, slà un gruppo di Svìzzeri, in elmo e giallo-rosa divisa, cui non mancano che i dadi e il tamburo per èsser veri giudèi da sepolcro, ri Ionio nel vano del finestrone da cui mi sono staccalo, e mi rimetto a guardare la sottostante amplìssima Roma. In quella, ecco risuona distintamente dal ( a- stel Sant' Vngelo, una fanfara da bersagliere ! Stranissimo elìcilo ! I preti sorrìsero ironicamente, i due militari arricciàronsi i baili e si fecero d’occhio ; io, dalla gioja, arrossii. Per la prima volta in mia vita, ainài, un istante, i soldati. Queirallegra fanfara, udita in quel'a moria atmosfera di quattro sècoli fà, parca dicesse, che il mondo vivèa tuttora nè mai avèa cessato dal procèder di corsa ; che l’Italia s’andava compiendo a dispetto di tutti i Santi del taccuino nè così tosto si sarebbe disfatta. E lì mi coglièa la smania di vedere una schiera di que* gióvani arditi, dalle piume al cappello,