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xxii preludio

battuto la voga dei primi libri Dossiani, il valore intimo ne era maggiore, perchè d’indole più vastar più generale. Carlo Dossi usciva in esse dall* io e dall’immediato ambiente circostante, ora spaziando nei più aerei Veri sublimi, ora abbassando sul fango della via lo sguardo e la mano, sempre con una mente superna, e con una penna così incisiva e cosi colorita, che ancora altra più non se n’ebbe che l’eguagliasse nella prosa italiana.

Ma forse, se della critica — che avrebbe dovuto vedere e dire meglio che non abbia visto, e più che non abbia detto, tolte non poche ed insigni eccezioni — il torto non fu tutto del pubblico, che non potè vedere quanto avrebbe forse voluto. Poiché, veramente, mancò sinora all’autore l’editore. Alla Riforma, che andava ripubblicando questa e quella delle opere Dossiane, eravamo ancora un cenacolo, più vasto di quello della Palestra, aperto liberalmente ad ogni bella e buuna idea, ma dove la politica faceva guerra alla letteratura, perchè ancora non era surto il giorno della fortuna per Francesco Crispi statista, e se polit:camente eravamo considerati ancora più rivoluzionari che riformisti (Cesare Correnti diceva allora che, Dio guardi!, Grippi voleva toccare la Carta!) questo non era certo un veicolo per la divulgazione dei nostri volumi. La Cronaca Bizantina, che ospitò poi il Dossi, gli riusciva compromettente sotto un altro aspetto, malgrado il patrocinio che le dava Carducci; nè gli altri editori, che il Dossi trovò qua e là, avevano quel tal possesso del pubblico da venir presi in parola ad ogni opera nuova, e tanto peggio se già condannata.

Oggi l’editore c’è; ed oggi, dopo tanta novità, più o men vera e sincera, dopo tanta libertà e tanta