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CAPITOLO OTTAVO 173 simo lunedì. E come fare di meno di questo Irallo di tempo, per preparare le penne, il calamajo, la carta ? Ma intanto, per attuìre la noja ch’egli si procurava, prese a frugare ne’ vecchi suoi cenci, vo’ dire nella raccolta delle òpere sue in versi éd in prosa, sopra la quale da anni — morta la nonna e don Romualdo inciullilo — ci dormiva su il gatto : chi vuole darsi infatti la pena di lèggere a sè i propri pensieri ? E Alberlo ci ricorse con smania. Ahimè rimasene mortificato. — N’ò ? — potrebbe qui osservare qualcuna di quelle prudenti persone, le quali, a scanso di sbagli, non fanno mai niente. — Vedete la fretta, ragazzi Fortuna che Alberlo non avea peranco stampato! — Ed io : ragazzi, ridètegli in muso. Per me v'àuguro, allorché rileggete i vostri vecchi lavori, di ritrovarli ben bruiti, e spesso ; ciò, a casa mia, è buon segno. Sen duole Alberlo ? clic imporla ! non ho mai sognalo tracciarvi una falsariga di lui, ma unicamente un caràttere, scello è vero di tra i più arlecchini. Tirando in lungo di fare, quando saremo su quel tale ripiano dove i pedanti danno venia a chi osa^ non sapremo di èsserci. Non si creda peraltro clic il progresso sia in tutti ; (lasciamo stare che alcuni diventano grattaculi prima che rose) ; come del corpo, il quale a data statura fà il grorpo, così, del nostro intelletto. Perciò, io vi giuro che le poesìe di Alberto avrebbero ancora riscossi i battimani di donna Giacinta, don Romualdo, c di mollissimi altri. Il lunedì venne. L’amico nostro siedette a scrillojo. Ei si sentiva la testa piena di belle pensate, ma senza verso di sprèmerle ; si die’ con la penna a tormentar la stoppina ; niente !