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vi | preludio |
noi aveva portato seco quasi intera la più bella virtù: quella reciproca bontà tollerante e operosa, che — indoli troppo conformi come eravamo noi altri due per potere senza urto accostarci — ci aveva aiutati ad amarci in lui; in lui che aveva amato entrambi con quell’altruismo unico per cui aveva visto nella nostra fortuna la sua, e aveva fatto della nostra la sua felicità.
Dico di Luigi Perelli, del quale i lettori vedranno più oltre, in questo e nei successivi volumi, quel che la onesta verità e l’affetto riconoscente hanno suggerito a Carlo Dossi; vedranno, così, nella Etichetta al Campionario:
“.... Passiamo, per ora, nella galleria de’ Ritratti umani, dove tutte si accumulano le nubi del cielo mio, dove i colori bui e l’aggrondatura predominano, a somiglianza di quelle caliginose imagini di antenati che nei palazzi patrizi occhieggiano biechi i loro rachitici successori, e sostiamo nel gabinetto d’introduzione, che reca i nomi dei due pittori colleghi, cioè il mio e quello di Luigi Perelli.
In questo stanzino non vedete ritratti di una sola classe di gente, ma sono appese a mo’ di campione, figure tolte qua e là. Quando infatti le segnavamo, l’idea di farne una metodica collezione non ci aveva ancor visitati.
Di chi sia questo, di chi quel bozzetto, non vi saprei oggi dir con certezza. Non mai collaborazione letteraria fu più intima, più appassionata di quella tra Perelli e me. Eravamo allora (e diciasette anni sono scorsi) all’equatore della nostra amicizia. Possedea Gigi tutto ciò di cui io mancavo: bello aspetto, buon senso, pronta e smagliante parola, una audacia che, senza mai confondersi colla sfacciatagine, rovesciava d’assalto qualsiasi diffidenza, un’onestà, sovratutto, abbigliata di allegria, che, quanti cuori toccava, avvinceva. In me, invece, il pensiero, benché pigro e lambiccato, profondo, una dottrina fatta di pazienza e fatica, una ostinazione che mi rendeva capace, non solo d’ideare un lavoro, ma di cominciarlo, e quel ch’è