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del chiabrera | 77 |
Quivi l’antica Evadne
La man le porge, e tutta riso in faccia
Penolopèa l’incontra,
Alceste gli da baci, Argia l’abbraccia;
50Tra’ bei Cantor lingua non è, che taccia
L’inclite di lei doti;
Ma su cetera d’ôr stanca la mano,
E così fa sentirsi
L’alma del gran Tebano:
55O ben nata, o ben degna
Di goder prestamente il ben de’ cieli,
Non di posarti in terra
Lungamente a languir tra caldi e geli!
Che oggi tua luce a’ guardi lor si veli
60Contra ragion, ben sai,
Prendono a lamentar gli egri mortali;
Basti tua rimembranza
A lor temprare i mali.
XV
IN MORTE
DI ORAZIO ZANCHINI.
Benchè di Dirce al fonte
Spensi primier la sete,
Che già Savona mia lunga sostenne,
E di Parnaso al monte
5Sulle piagge segrete
Di lei Cigno novel sciolsi le penne;
Non mai però m’avvenne
Sì desïata sorte,
Che di Febo intendessi
10Il canto, ond’io potessi
Vincer quaggiù l’aspro rigor di morte;
Od al suo colpo crudo
Ond’io temprassi scudo.
Colei d’alti diamanti
15L’orrido cor si serra,
Nè l’altrui merto unqua pietà vi crea;
Nè per preghi o per pianti
Unqua perdona in terra,
Sempre a’ mortali inesorabil, rea:
20Incontrastabil Dea,
Tua legge io non rifiuto,
Sì ti riprego ardente,
Me tua falce possente
Nelle piagge del dì mieta canuto,
25Chè è doppio aspro morire
Caderci sul fiorire.
Ma Te, del nostro giorno
Mattino aureo sereno,
Ria morte, Orazio, acerbamente ha spento;
30E benchè al tuo ritorno
Nel bel velo terreno
Vano sia il lagrimar, vano il lamento;
Pur piango a i pianti intento,
Onde Fiorenza suona,
35Che del tuo vago Aprile,
Già d’ogni fior gentile,
Lieta sul biondo crin portò corona;
Ora il bel crin si frange,
E sul tuo sasso piange.
40Ma la cetra soave,
Che su corde canore
Svegliava il suon della dolcezza eterna,
Fatta funesta e grave
D’immenso atro dolore,
45Tace per te nella magion paterna;
E il Dio, che almo governa
Casto le stirpe umane,
Spenta ha la face accesa;
Nè col desir contesa
50Fan più d’amor le Vergini Toscane;
Chè col gel, che ti preme,
Vedova è la lor speme.
Così di porto uscito,
Per Oceáno orrendo
55Perdi le merci a te dal Ciel concesse;
E noi quaggiù sul lito
Lasci ad ognor piangendo:
L’Austro crudel, che il tuo bel legno oppresse,
Vidi qual aurea messe,
60Che ove più ricche usciro
Dentro l’ombre inimiche
Perdeo l’amate spiche;
O quale agli occhi altrui conca di Tiro
Fra l’alghe in sull’arena
65Senz’ostro onde ella è piena.
XVI
PER N. ORSINO.
Ecco il Roman Campion dall’Istro algente
Di sangue e di sudor stillante ancora:
Tal fier leone indomito fremente
Da’ campi aperti, ove scannò pur ora
5In fiera pugna cacciatori e belve,
Stanco ritorna alle riposte selve.
Qual più dolce rugiada e mel distilla
Da’ bei colli fioriti, amica Clio,
Cogli, e con man di rose il cor ne instilla,
10Dolcissimo conforto al Signor mio;
E vôlti in dolce obblio querele e pianti,
Risveglia a gloria sua le cetre e i canti.
Ch’ove di bell’onor palma si coglie,
Caro prezzo non è la cara vita;
15Ne quai più chiare e glorïose spoglie
Colse in campo di Marte anima ardita,
Delle sue piaghe avran più degno vanto;
E rida il vulgo vil del nostro canto.
Sempre là, dove alma virtù s’onora,
20Premio fia degno per le nobil’alme.
Han le vittorie, ha la rea sorte ancora
Men liete sì, ma non men chiare palme:
E quai Patroclo al cener suo non vide
Erger trofei d’onor dal gran Pelide?
25Non fia mai no, perchè mill’anni e mille
Si giri il Sole all’ampia terra intorno,
Che men chiaro tra noi suoni e sfaville
D’immortal gloria il grand’Orsino adorno;
Avrà ben ei dal suo valor mercede:
30Europa no, non la Cristiana Fede.
Ahi perchè allor che fra le turbe fiere
Fulmin parea del ciel l’invitta spada,
Non mosser mille Duci e mille schiere
Per quella ch’egli apria sanguigna strada?
35E qual Campion più degno Europa aspetta
Di tanti indegni oltraggi a far vendetta?