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36 | poesie |
Mette le piante in posa,
Se l’abbandona armoniosa cetra;
45E del fier Marte cavaliero ardito
Vien neghittoso e lento,
Se al grave suo tormento
Nulla di Pindo chiara voce impetra;
Sì fatta veritate alto risuona:
50Eccita negli affanni almo Elicona.
Che armasse il busto di terribil belva
Turba d’orride teste
Per le greche foreste,
Fu della bella Clio gentil vaghezza;
55Nè di Nemea per la cantata selva
Leone unqua si vide;
Ver è, che in terra Alcide
Circondò l’alma d’immortal fortezza;
Per eccelse fatiche ei si fe’ chiaro,
60Le Muse poi per cotal via l’ornaro.
E tu s’avvien, che l’asta tua percuota
Ne’ libici tiranni,
O con egregj affanni
T’inghirlandi per l’Asia altero alloro,
65Udirai risonar lungo l’Eurota
Nobili tuoi trofei,
Assalti gigantèi,
E per aria iterare alto Indamoro,
Ed in versi formar mostri e portenti;
70Stupore immenso alle foture genti.
L’anima volgi al cavalier, che nacque
Giù da dorata pioggia,
Mentre per l’aria ei poggia,
Alato il piè, nell’Etiopia scerse
75Vergine rilegata in riva all’acque;
Della bella infelice
La rëal genitrice
Di pianto ambo le guance avea cosperse;
Ed a ragion; che per infamia è forte
80Uom che asciutto de’ suoi mira la morte.
Verso lei, che dolente era in catene,
Apparecchiando il morso,
Precipitava il corso
Nel seno all’oceán fera squamosa,
85Gran spavento dell’onde e dell’arene;
Ma calandosi d’alto
Al glorioso assalto
Perseo ratto infammò l’alma amorosa,
E spense il mostro, e la donzella sciolse,
90E per man d’Imeneo seco la volse.
Le meraviglie del Gorgon non scrivo,
Che forse annojar fora;
O Sol, di cui l’Aurora
Fa sull’Arno sperar lungo sereno;
95Come fra noi nel cavaliero argivo
Canta il gentil Permesso,
Così di te lo stesso
opo gran tempo canterà non meno,
mai Lucinda per l’età futura
100Più che la chiara Andromeda fia scura.
LIII
AL SIGNOR
AVERARDO MEDICI
Quando il principe D. Carlo fu fatto cardinale1.
Averardo, al cui petto,
Come ad albergo suo, virtù ripara,
Al cui chiaro intelletto
La limpid’acqua di Castalia è cara,
5Io solingo in Savona oggi ho ricetto;
Colà dove tra’ monti, e lungo l’acque
Non appar opra di superbo ingegno:
Non dispregiar perciò, che già qui nacque
Tal, ch’ebbe scettro del celeste regno,
10E tal, che preso Abila, e Calpe a sdegno,
All’ardimento umano
Ruppe il divieto estremo,
Soggiogator supremo
Dell’immenso oceáno,
15E quinci ei fe’ palese,
Che la virtà di nobil alma altera
Non mai dell’alte imprese
A suo favor l’eccelso fin dispera;
Or qui tra selve, che le faci accese
20Del più fervido Sol prendono a scherno,
Lunge dal vulgo vil faccio soggiorno;
E di fiato gentil Zefiro eterno
Sento fra’ rami trasvolare intorno,
E sento, quando in ciel risorge il giorno;
25E quando in mar s’asconde,
D’augelli aerei
E di rivi sonanti
Amabilissime onde.
Scendo talor dal monte,
30E calco presso il mar piani sentieri.
Il varïare è fonte
E de’ trastulli e degli uman piaceri.
A chi del mare le letizie conte
Non son in fra mortali? ed al suo vanto
35Qual non cede quaggiù vanto terreno?
Del buon Parnaso ne fa certi il canto,
Che Venere del mar sorse nel seno;
Qual dunque a cor gentil può venir meno
De i diletti maggiori
40Là dove a nascer ebbe,
E dove al mondo crebbe
La madre degli amori?
Cari giocondi liti,
Schermo dell’altrui duol, scampo alle pene,
45Scherzi e giochi infiniti
Ognora io provo in sulle vostre arene,
Mille con ami al pesce inganni orditi,
Fresc’aurea di zeffiri entro alle vele,
Bella calma al notâre allettatrice;
50Qua l’arso pescatore alza querele,
Là ride dell’ardor la pescatrice;
E chi tesse le reti, e chi predice
- ↑ Fratello del granduca Cosimo II, sotto il cui regno, cioè dal 1609 al 1621, fu fatto cardinale.