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nome chiamasi Gian Jacopo Cavalli1, ed egli ha composto in volgare di Genova sonetti e canzoni, rappresentando amori di pescatori e di personaggi plebei; ma per salda verità altro non deono stimarsi che plebee poesie. Egli tra le le Muse potuto porre una lingua in pregio, la quale fra popoli era quasi in vilipendio, e per ischerzo ha rappresentate passioni di gente vile in favella disprezzata, per modo che meglio non si è fatto da poeti chiari di buon senno in idiomi nobili; ed io non mi vergogno punto d'affermarle. Veramente alcuna volta Omero poetò quasi andando a diporto per lo Parnaso, e prese a dire le mortali battaglie che si diedero una volta i topi con esso i ranocchi; e quivi fu Omero senza fallo, ma egli non diede gloria al volgare greco, già celebrato per ogni parte, solamente innalzò materia bassa con sua gran maestria. Gian Jacopo Cavalli, imitando gravi passioni di minuta gente ha rischiarata la favella non conosciuta, e fa forza agli stranieri di apprenderla per godere di cosa riputata non possibile ad avvenire; ed altri rimane con maraviglia recandosi in mano componimenti presi a leggere con intendimento di ridere solamente. Dunque se la favella è opera propria dell'uomo, il Cavalli, con onorare l'idioma genovese ha fatto onore alla sua nazione in cosa, onde gli abitatori delle nostre riviere non rimanevano senza vergogna, adoperandola malamente. Per certo il ciò fare è stata nuova e strana vaghezza; ma la Liguria produce uomini Trovatori, e trovatori di cose non immaginate e appena credute.



Scrissi mosso dal suo afflittissimo stomaco, e ricordai a V. S. il modo col quale io prenderei a governarmi; e scrissi specialmente, perchè io in si fatte passioni rifuggo fortemente dalle mani de' medici. Non ho poi avuto ninna novella di V. S.; temo non sia continuamente in alcuna pena, e ne ho passione, e però nè desidero chiarezza: se il silenzio è con giocondità, io pure ne son giocondo, e soffro pazientemente il digiuno delle sue lettere. Io la Dio mercè sto sano e fortissimo, ingordo di frulli e schifo di carne: per la solitudine della patria sono povero di compagnia, ma i libri non mi lasciano perire. Che più? le Muse mi solleticano, ma io non mi rendo alle loro moine; il pelo bianco non si accomoda, nè si confà con le donzelle. Ho bene messo in ordine quanto voglio che per me si vegga di componimenti lirici, per istampare, se nè avrò comodità. Vorrei porre in chiaro l'Amedeida in quella forma nella quale io la composi quando ella i nacque, ma mi spaventa lo trascriverla. Di Firenze mi scrivono novelle di conforto: se per settembre io potessi giunger colà, acconcierei forse molte mie faccende; se non potrò, penso di giungere fino alla Madonna di Reggio, là dove ho voto di adorare. Cinque anni di riposo mi pare impossibile averlo sostenuto, e sento una voce interna, la quale mi spone querele di osti e di vetturali. Questi pensieri io faccio per allegrarmi; ma, futuri temporis exitum caligniosa nocte premit Deus. V. S. procuri di star sano, e diami novelle di sè. Io bacio le mani a cotesti signori, e faccio riverenza alle mie signore, e Dio grandissimo abbia tutti in sua guardia.

Di Savona, li 15 Giugno 1630.


al medesimo


Se l'Originale fosse per lungamente durare io non entrerei in questo pensiero, ma perchè le cose vanno altramente, io mando a V. S. questo Ritratto. Egli darà meno di noia a codesta casa, che non suole darle la mia persona; e quando io sarò chiamato agli anni eterni dell'altro secolo, le rinfrescherà la memoria di uno, il quale molto desiderò di servirla, e mai non fu possente a fornire il desiderio; e però nella somma ventura della nostra amicizia egli intieramente non fu felice. Feceló in Roma il cavalier Padovanino, colà sinuato eccellente maestro di cosi fatte opere. Gioisco che l'Accademia si risvegli, ed affermo ch'ella dovrebbe fare onore alla virtù del signor Marchese. Ma V. S. perciò mi chiama indarno: e primiera- mente perchè le ore son si pronte a finire il viaggio, che assai spazio non ho per me a pensare comio corro alla morte; e poi fra cotesti signori è gran copia che può correre sì fatto arringo; e finalmente io mi do ad intendere che gli eredi ed amici di quel signore non si diano cotali affanni; e forse mi avverrebbe come avvenne non ha molli anni pure costi. E qui lascio correre con V. S. la penna per mostrarmi non orbo; che per altro io me ne prendo giuoco, avendo salde testimonianze da fare altrui parlare di quello di che a me conviene tacere. Ma, ch'io venga a far passeggi, dialoghi, a godere la città, e farmi vivo in cotesta casa, ciò è mio desiderio, e ne conto i momenti; e torno a dirle che se per gli odiosi temporali minacciati non e sicuro l'ospitalare, V. S. con intiera mia soddisfazione me lo può car intendere, lasciando saldo ed immobile l'amore vostro e mio. Qui abbiamo nevi, ed abbiamo avuto e mio. Qui abbiamo nevi, ed abbiamo avuto rabbie boreali orrbili, nè mi hanno lasciato andar presso a copiare il libro, ma tuttavia io ho trapassato la metà, e col fine dell'anno spero di finire la copia. V. S. si rallegri a mio nome col signore principe Giustiniano, sotto il cui governo son certo che fiori-

  1. Furono stampate le sue Poesie in Genova dal Franchelli nel 1745 per cura del P. Priani della Madre di Dio sotto nome di Drusino Cisseo; e così pure modernamente in Genova, 1823, in 8°.
  2. Sì questa, che le susseguenti Lettere furono indirizzate all'illustre patrizio genovese Giustiniani, amico grandissimo del Chiabrera, e poeta egli stesso ma di guasto stile. Si pubblicarono per la prima volta insieme con altre al numero di 150 per cura del P. Porrata in Bologna, 1762, in 4°, e recentemente se n'è fatta una ristampa molto elegante in Genova per cura di Vincenzo Canepa, il quale altre Lettere aggiunse tolte da manoscritti che si serbano nella patria dell'Autore, e che concernono a privati affari, ed a ragguagli di quanto il Chiabrera operava a vantaggio de' suoi concittadini.