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A ragione siccome amico dell’invidia si additerebbe colui, dal quale negato fosse a Firenze il pregio per chiarezza d’ingegni illustrissimi, ed anco dirittamente appellerebbesi nemico della verità chiunque non riponesse Giovanni Ciampoli infra coloro, ed anzi fra i primi che fra i secondi. Vassene altiera quella Città, nè senza ragione, per lungo numero di singolari cittadini, molti maestri delle scienze profonde, moltissimi forniti di quelle lettere, a cui per eccellenza dassi il nome di belle comunemente da’ popoli. Ora dovunque noi vorremo nominare il Ciampoli, ne fia con nostra loda conceduto. Egli da prima apprese gli ordini dell’idioma Toscano, e del Latino, e del Greco: poscia uscendo di casa dimorò in Pisa per cagione dello studio, nè meno poi in Padova, ed in Bologna. Quivi adornossi della Filosofia; ascoltò ciò che dettano i maestri della legge imperiale: prese conoscenza delle matematiche, e nulla a dietro lasciò di quello, che nelle scuole suole insegnarsi a peregrini intelletti. Sì fattamente fornito egli inviossi nello steccato di Roma per combattere la fortuna, se ella malvagiamente si facesse incontro alla sua chiara virtù; poco penò ad essere conosciuto, ed insieme amato, ma da D. Virginio Cesarinì per modo che di due stelle fecesi un astro, onde tu tutto il Cielo si rischiarò di quella gran corte. Gregorio XV. Sommo Pontefice chiamollo nel Vaticano, e creollo Secretano de’ Brevi, i quali soglionsi scrivere a Principi; succedendo Urbano VIII. lasciollo nelle fatiche medesime; ma gli crebbe onore chiamandolo suo secreto Cameriere. In questo grado e nell’età di trentacinque anni spone la volontà di nostro Signore a Principi, e con amata violenza comanda persuadendo nelle Reggie di tutta Europa; ma dando risposta a reali ambasciatori con tuono soave di voce fa rimbombare tuoni di tale eloquenza, onde scuotonsi gli animi non di timore, ma di maraviglia grandissima. Veramente gli si deono sommi titoli per avere sormontata la gloria di quegli antichi; ma se egli nella vecchiezza sublimerassi sopra le lodi della sua medesima gioventù fia mestieri fra gli uomini trovare nuove note per esprimere il merito dal non più manifestato valore.
Italia quanto ella è grande colmossi di maraviglia, quando vedeva D. Virginio Cesarini universale padrone delle scienze pure in quegli anni, ne quali sogliono cominciare gli uomini ad apprenderle; e veramente rare volte videsi quello, che ad ogni ora Roma soleva per lui vedere; ciò era un nobile giovinetto cinto di spada, ed in abito assai leggiadro azzuffarsi nelle letterarie contese con uomini maestri, e nelle scuole diventati tutti canuti; e per vaghezza lasciarli in forse del saper loro su quelle catedre, in cui dell’altrui dottrina soleano trionfare. Egli della filosofia fu espertissimo, della sacra teologia penetrò negli intendimenti più secreti, e niuna finalmente delle scienze gli fu straniera; la gentilezza delle lettere umane ebbe in sua balia; e nella poesia latina, verso la quale egli piegava l’animo, colse il pregio di ogni corona; la toscana non ebbe a vile, anzi in molte maniere scherzovvi dentro, ed avvegnacchè egli l’ingegno solamente trastullasse, fecelo per modo, che gli altrui studj appena adeguavano i suoi trastulli, e di tante e tanto ammirabili eccellenze egli adornossi di quà da trent’anni della sua vita; perciocchè quivi gli diede assalto una male conosciuta infermità, la quale non lasciollo al mondo, ma l’atterrò. Ora di personaggio sì fatto pare soverchio per onorarlo raccontare, ch’egli splendesse di nobiltà chiaramente, e che non gli venisse meno ricchezza, e che nella sembianza gli fiorisse singolare bellezza: in persona di cui l’anima non sfavillasse, apparirebbono questi splendori; ma in D. Virginio la chiarezza eterna dell’intelletto adombrò queste caduche faville. Non è già da porsi in silenzio, che tutte le genti il riverirono, e che sommi Pontefici il vollero appresso, e l’apprezzarono sommamente, e via meno è da tacersi, che il Romano Popolo, ed il Senato con pubblica pompa gli fecero esequie, e comandarono, che nel Campidoglio ne durasse sempiterna memoria. Quale fia dunque lo sconsigliato, che affissandosi in questo specchio non divenga vaghissimo di virtù, essendo certo che nella vita e nella morte ella ne accompagna con altissima pompa di onorevolezza, e ripone i nostri nomi nel tempio desiderato d’eternità?
Volgendo la mente sopra Giambatista Marino sovvienimi di Pindaro, quando egli cantava contra Bachilide. Diceva quell’uomo chiarissimo, che tra poeti coloro erano eccellenti, i quali della natura aveano lor movimento; ma se altri pigliava vigore solo dall’arte, egli averebbe gracchiato siccome un corbo. Il Marino, il quale non prima ebbe favella che vena, ed a cui per altro conceduta non fu la lingua, salvo perchè egli cantasse, può farne manifestissima prova fra noi. E come senza largo favor di natura amicissima potevansi mettere insieme cotanti versi, e di cotante maniere, ed addattarsi a cotante generazioni di poemi? Certamente altri guardando al gran numero, dispera della lor gran bontà, ed esaminando la lor gran bontà, non dà fede a se medesimo del loro sì grande numero; e se parlando di poeta altri volesse poeticamente parlare, acconciamente piglierebbe argomento della patria; perciocchè essendo il Marini venuto al Mondo sulle bellissime piagge di Napoli, potremmo dire, ch’egli apprendesse dalle Sirene a mirabilmente cantare, ma non per affogare alcun passaggiere, anzi per far giocondi gli ascoltatori. Visse oltra cinquantacinque anni, caro a chiunque ebbe con lui amistà, celebrato da po-