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Venne per la solennità del Santissimo Giubileo il principe di Polonia ad adorare in Roma Urbano VIII, pontefice per autorità e per benignità massimo: raccolselo con quei modi i quali si dovevano a tanto personaggio, e finalmente , tenendol seco a desinare nel palagio del Vaticano, ora, acciocchè egli avesse quivi alcun particolare piacere, monsignor Ciampoli segretario del papa compose un poemetto da recitargli cantando. Il poemetto sponeva la vittoria la quale si ottenne sopra il Turco da questo giovane principe; vittoria nobile e nobilmente cantata: in questo poemetto erano alcune canzonette a guisa di cori nelle tragedie , ed erano composte di versi fra loro varj e lontani dall’usanza antica; ed appunto come alcuni di questi de’ quali noi questioniamo. Certa cosa è, che niuna parte maggiormente dilettò le orecchie che quei cori: sì giunsero cosa nova agli uditori, e sì furono stimati peregrini da ciascheduno. Nè fu solamente così giudicato dal pontefice e da’ cardinali, e da pochi monsignori che quivi ebbero licenza d’intervenirvi , ma mentre s’apprestava il canto e provavasi privatamente, egli fu dal fiore della corte sentito a bello agio ed oziosamente esaminato; e per la più gente quei cori si celebrarono non poco. E però se si dee in questo affare andare col popolo, la nostra opinione non è condannata; e se vogliamo il giudizio delle persone dottrinate, noi non disperiamo commendazione. Nè altra cosa fa danno a questa usanza moderna di verseggiare, più, la riverenza dovuta all’antichità non scema pregio, quei modi degli antichi siedono sulla cima, questi altri sono per dilettare chi meno sa, e se bene fosse in ogni studio attenersi alle cose fatte ed altro non procacciare, certamente le tante provincie dal Colombo scoperte sarebbero tuttavia sconosciute; nè il Galileo averebbe nel cielo scoperto quei lumi e movimenti ai trapassati secoli non manifesti. Io non voglio ritenermi di farvi una prova, ed uditemi volentieri. Il Petrarca, volendo parlare con loda degli occhi di Laura, disse una volta così:

Gentil mia donna, io veggio
     Nel mover de’ vostri occhi un dolce lume,
     Che mi mostra la via ch’al ciel conduce;
     E per lungo costume
     Dentro là dove sol con Amor seggio
     Quasi visibilmente il cor traluce:
     Questa è la vista ch’a ben far m’induce,
     E che mi scorge al glorioso fine;
     Questa sola dal mondo m’allontana.

Segue poi, filosofando, versi senza paragone c concetti amorosi partiti affatto dalla plebe, ciò è vero, ma qual giovane donna ne trarrà diletto, e compitamente intenderalli? È dunque da farsi che la nostra poesia volgare possa rappresentarsi ancora agl’ingegni comunali, che s’ascoltino dimessamente pensieri non alti nè altamente verseggiati:

     Chi può mirarvi
          E non lodarvi
          Fonti del mio martiro,
          Begli occhi chiari,
          A me più cari,
          Che gli occhi onde vi miro?

Parvi egli che donna niuna debba trovar malagevolezza ad intendere sì fatto canto? Gli egli è bassa cosa e vile a paragone di quello antico! È vero, nol vi niego, ma nel mondo sono tutti gli uomini di sublime intendimento? certamente non sono, e possiamo affermare per cosa vera, che la maniera del poetare la quale si chiama lirica, è tutta di amori e di conviti, e sua materia è ciò che ha forza di dare diletto a’ sentimenti, nè per ciò fare ella ha mestiere de’ maggior versi del mondo. Non niego pertanto che si lodino dal poeta lirico cavalieri ed alti personaggi, non per tutto questo sì fatta lode è da porsi fuori del confine del verseggiare liricamente con alquanto più di dignità, è vero, ma non già con l’alterezza del verseggiare eroicamente, siccome fanno i poeti epici. Facciavelo credere l’esempio di Pindaro e di Orazio allora che celebrano re ed uomini eccelsi, perocchè noi veggiamo che per loro si compongono in quelle canzoni versi altri che esametri. E poichè siamo sul ragionare dell’altezza delle canzoni intorno a’ versi degli antichi, io dirovvi che alcuna volta ho posto quasi in bilancia il verseggiare lirico e l’eroico e trovo l’ eroico perdere di sublimità. Udite:

Nel dolce tempo de la prima etade,
Che nascer vide, ed ancor quasi in erba,
La fera voglia, che per mio mal crebbe;
Perchè cantando il duol si disacerba,
Canterò come vissi in libertade,
Fin ch’Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe.
Poi seguirò sì come a lui n’increbbe
Troppo altamente, e che di ciò m’avvenne.

Sì è fatto il lirico amoroso. Udite l’eroico guerriero:

Così scendendo dal natío suo monte,
Non empie umile il Pò l’augusta sponda,
Ma sempre più quanto è più lungi al fonte,
Di nuove forze insuperbito abbonda:
Sopra i rotti con fin alza la fronte
Di Tauro, e vincitor d’intorno inonda,
E con più corna acque sospinge, e pare
Che guerra porti, e non tributo al mare.

Hovvi posto sotto gli orecchi gli uni e gli altri versi; date voi la sentenza.

Cic. Sempre meco medesimo ho contrastato di ciò; e se io dovessi far palese il mio interno sentimento, affermerei che il poema eroico appresso noi non ha l’ottimo suo stromento. Non dico che il verso di undici sillabe non sia il più grande della lingua, ma voglio dire che il rimarlo alla guisa che si rima nelle ottave non è forse da accettare per ottima usanza; ma è da più lungamente questo fatto. Avendo riguardo a’ Greci ed a’ Latini, si vorrebbe tessere la narrazione eroica, o senza rima o con esso lei, ma di sciolta e senza fermo ordine; tuttavia nel volgar nostro sono poemi