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guastiamo la loro vera armonia e misura. Non posso pertanto darvi cortezza della mia credenza appieno, se non metto in mezzo un uomo romano, e facendolo risuscitare nol prego a dirvene la verità. Questi sarà non mica un idiota ma un dottrinato, nè vile ma in fra tutti chiarissimo, e chiamasi Marco Tullio Cicerone. Egli trattando con Bruto dell’Oratore sovrano, e tenendo ragionamento dei numeri della prosa, disse così a punto; nè prenderò guardia di recitare la scrittura latina, perciocchè quantunque senta alquanto del maestro di scuola il mescolare col volgare il latino, avrà non di meno maggiore peso ed autorità la testimonianza. Queste sono le parole: Sed in versibus res est apertior: quamquam etiam a modis quibusdatn cantu remoto soluta esse videatur orati: maximeque id in optimo quoque poetarum qui lyrici a Graecis nominantur, quos cum cantu expoliaveris nuda pene remanet Oratio: quorum similia sunt etiam apud nostros: velut illi in Thieste; quem nam te esse dicant? qui tarda in senectute; et quae sequuntur; quae nisi cum tibicen accessit, Orationi sunt solutae simillima.

Eccovi come i versi lirici, se non si cantano, si accostano al comune ragionare degli uomini; e di qui dee cessare la sentenza che voi fate contra alcuni de’ nostri per la loro poca armonia, perciocchè quando essi si canteranno farannosi sentire come versi manifestamente. Ora raccoglierò alquanto i miei detti: Se dunque la lingua toscana ha molta varietà di versi, ed averli è dignità sua, e se tra questi suoi versi non deono alcuni sbandirsi per poco suono che s’abbiano, non dee nè anco parer strano, nè riprendersi che, componendo canzoni, le strofe si forniscano di versi fra loro diversi; e però dovransi accompagnare più lunghi e più corti, ammezzati e soprabbondanti, e d’ogni loro maniera accozzarsene insieme. L’esempio degli antichi ne dà consiglio: certamente Orazio non fece strofa maggiore che di quattro versi, eppure noi leggiamo in una sua strofe tre versi di varia generazione; e però se noi fabbricheremo strofa con maggiore moltitudine di versi, bene ci si dee consentire licenza di più variamente verseggiare; la qual licenza volle Pindaro che a lui si concedesse, il quale ampie faceva le strofe degli inni suoi. Io veggio che voi sorgerete, e moveretevi all’incontra; direte, per avventura: In questa lingua la diversità di versi così accozzata nè fia dolce cosa nè gentile; anzi quest’aecozzamento sembrerà una zuffa ed uno scompiglio, di che nulla è più contrario alta soavità della poesia, io proverommi di rispondere. Quando dassi licenza di fare qualunque cosa a chi che sia, dassigli con patto ch’egli la faccia che bene stia, e con ragione talmente ch’ella riesca cara e di grado delle persone. Sono nell’arte dell’architettura più ordini, come sapete; dassi possanza di mescolargli negli edifizj, ma se il maestro malamente gli mescolerà ei saranno a ragione biasimato, e l’arte per sè rimarrà col suo pregio.

I cantori hanno molte note, ma se il musico indegnamente porralle insieme, fia sua l’infamia e non del mestiere del canto. Similmente dee essere nella poesia toscana: sono molte sorte di versi, e possono variamente accompagnarsi, ma se viziosamente accompagninsi, colpa n’averà il poeta, e la poesia audrassene assoluta. E qui assai potrei discorrerne, ma basterammi l’aver detto fin qui.

C. Non posso per tutto ciò che detto m’avete bene acquetarmi. Sono alcune cose, le quali bene non possono fornirsi per colpa della loro naturalezza, ed allora chi si mette in prova non può schermirsi da biasimo; perciocchè volere quello che conseguir non si può è atto di vera follía. Se la lingua greca o la latina si adornavano di quella varietà di versi posti insieme sì fattamente io nol so, ma dollomi a credere perchè scrittori celebratissimi così fecero e per questa ragione io biasimo chiunque tessendo canzoni toscane le empie di varj versi, perciocchè per sua natura il linguaggio rifiuta sì fatta varietà; e mi conduce a credere questo rifiuto la ragione, che mi fa credere il contrario della greca lingua e della latina: voglio dire, ch’essendo io in forse se quelle lingue amassero la varietà de’ versi, e non potendo disciormi dal dubbio per mezzo del senso, perocchè le lingue sono spente, io me ne disciolgo colla ragione, e dico a me medesimo: Se mal fosse stato il così verseggiare, Pindaro astenuto se ne sarebbe, e sarebbesene astenuto Orazio, il che fatto non hanno, e ne vanno gloriosi; dunque quelle lingue amano quella varietà di versi. Ma nel volgare idioma avviene diversamente; i padri della poesia nostra a pochi versi si attennero, e sono ammirati; ora perchè cercare, come si dice in proverbio, miglior pane che di grano?

Ger. Che i padri della lingua nostra, ed i poeti antichi abbiano approvata la varietà dei versi, io ve ne ho fatto certo, e l’Orzatesi più ampiamente ve ne trattò ieri; se non l’usarono frequentemente, fu perchè bramavano un canto eccelso, ed il maggiore che nel volgare nostro potesse sentirsi; ed a compire il lor desiderio non era necessaria la moltitudine de’ versi, ma quelli bastavano onde sorgeva maggior suono; ed essi gli adoperarono. Se poi il loro giudizio in ciò fu perfetto, è da questionarsi fra loro i quali son degni di esaminare cose grandi perchè son forniti di grande intelletto; questa non è opra da polire con la mia lima; ma comporre canzoni con varj versi in oggi veggo non schifarsi, e veggo i popoli porgere volentieri l’orecchio, il che non è picciolo argomento a persuadere che sia lodevole cosa. E certo è che i maestri di canto musicano di buon grado sì fatti componimenti; anzi il fanno con grande vaghezza, e confessano prontamente, che dalla varietà de’ versi si presta loro comodità di più allettar l’uditore con loro note: e non è vana prova della mia opinione, conciossiachè in ogn’arte sono da riverire i maestri. Che io non dica menzogne sia testimone tutta Italia, e specialmente Firenze e Roma. E voglio raccontarvi un esempio, e racconterollo veracemente.