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352 | prose |
sere con molto pericolo. Deesi ancora pensare, se è ben fatto che per le materie di dolcezza e di tenerezza sia verso minore di quelli, i quali adoperansi nelle materie sublimi, e certamente non dee parere salvo ben fatto. E ne lo persuade l’esempio de’ greci e de’ latini poeti, i quali nei componimenti da loro appellati lirici, non s’impacciano molto col verso loro esametro, ma lascianlo da parte per ornarne gli eroi, e similmente fanno i Francesi oggidì, nè ci si faccia all’incontra l’autorità grandissima di Petrarca e di Dante, che in questo modo puossi rispondere: Costoro hanno amando sofferite passioni, ed altissima gentilezza di cose, e sì fatte hannole espresse nei loro versi, e però doveano trovar versi che a quella sublimità andassero a paro a paro, ma se alcuno vorrà trattare i suoi concetti più distesamente, commetterebbe egli errore a non ritrovar un verseggiare più dimesso? Io ardirei affermare che egli il commetterebbe. E pogniamo sì fatto caso: sia un giovinetto, ovvero una donzella innamorata, nel cui petto sia passione, e la non si regga con franca ragione, nè con specolazioni da scola de’ filosofi. Che cantasserò eglino? certamente tutto quello che sentiranno dentro dal core, e tutto ciò non fia altro che affetto lieto o dolente, di cui gli uomini amando sono naturalmente ripieni. Io per me stimo, che di cento i novanta lasceranno a dietro ciò che Socrate divinamente insegnò a Fedro, e tutto ciò che Platone fa discorrere con tanta altezza nel dialogo del suo convito. Oh mi direte, Dante e Petrarca non vollero adornare le loro rime, ed io risponda, essi fecero ottimamente, ed erano tali che seppero farlo, ma l’amante che di tanto sapere non sarà fornito , sfogherassi con sporre semplicemente i suoi dolori e i suoi piaceri, ed allora perchè dee por mano a versi alti ed altieramente sonanti? Pigliasi di grazia alcune canzoni d’Orazio tessute con versi dimessi, e dopo averli considerati, riprendeteli se vi basta l’animo, perchè non siano composti di versi esametri: certamente nè voi, nè niuno reprenderalle per ciò. Credo che per voi si leggano poesie francesi, ponetevi in memoria quei loro vezzi amorosi, quelle lusinghe, quelle tenerezze, le quali ogni donna ed ogni uomo può e sa esprimere, e ciascuno, quando sono espresse, le intende agevolmente; non pigliate voi solazzo in vedere così amorosamente rappresentati sì fatti scherzi, a quali intendere non fa mestiere nè commento, nè chiosa? D’altra parte cantate ad un drappello di vergini una canzone di Dante o di Petrarca, e poi chiedete da loro ciò che hanno ascoltato. Mi direte, è vero, quelle son poesie sopraumane, e vogliono uditori di sottilissimo ingegno, e di quii meritano ammirazione. Io non voglio contrastarvelo, ma infra la generazione umana trovansi degl’ingegni assottigliati ed anco de’ materiali, e ciascuno dee poter cantare, e però si vuole dar loro versi che abbiano buon riguardo alle materie che da loro sogliono e possono recitarsi. Io voglio dire un pensamento, ma già non lo dico per ferma sentenza, ma come mio puro pensamento. Io veggo versi negli antichi scrittori toscani, ed anco nei moderni, i quali non sono solamente per sè stessi i maggiori del nostro linguaggio, ma anco si accoppiano insieme fra loro, e se ne formano strofe di canzoni, in maniera che la tessitura dell’ottava rima non è più ribombante. E se così è, certo non e ragion d’arte che più degnamente si canti la danza d’una donna, che la battaglia di un eroe, e se questo mio pensamento fosse da non biasimarsi, il che nè spero, nè despero, si comprenderebbe poeti antichi in sul nascere della poesia toscana non avere a tutto le cose sottilmente pensato, onde rimarrebbe luogo a’ nostri secoli, ed a quelli che veniranno appresso, di molti così trovare e di non pochi emendare. Ho detto quanto so per provare che le varietà de’ versi sopra notati sieno anzi di giovamento alla poesia toscana che di danno, e che perciò deonsi non sbandire dal Parnaso, ma dar loro quivi cortese albergo.
Cic. Io non mai affermerò, che la copia dei versi faccia danno alla poesia, ma è ben da por mente se i versi sono acconci ad abbellirla, ovvero a deteriorarla, chè se ci sono per loro condizione sì vili che non possan ascoltarsi con gentilezza, per cerio deesi loro dar bando. sì come fassi agli uomini ammorbati, ed è vantaggio perderli. E veramente io sono offeso da molti versi di quelli da voi notati, per una speciale loro condizione, cioè che non hanno tanto suono che si facciano sentire per versi ma paiono una prosa.
Ger. Ben dite, ma sì fatta condizione non è di alcuni versi: anzi di tutti, nè di toscani solamente, ma di latini non meno. E ditemi per vostra fè, se diciamo parole di undici sillabe talmente accentate che ne riesca verso nei nostri ragionamenti, questo verso cosi prodotto non trapassa via come prosa? Certamente noi ciò veggiamo avvenire. Ma se di mano in mano tante parole con tante sillabe accentate a punto l’orecchia vostra sente pronunciarsi, ella conserva quei numeri, e li reputa versi; voglia dire pertanto, che avvegnachè alcuni versi vengano assai della prosa mentre sono uditi, ciascuno per sè, quando poi se ne ascolta uni quantità si fanno scorgere altro che prosa; e questo appare via maggiormente, quando essi si cantano: e cantarsi è quasi loro qualità naturale; perchè chi recita versi, o tanto o quanto non dà loro un’aria onde si discompagnano dal comune parlare? E perchè ho detto che il dispiacere da voi sentito in alcuni versi toscani di Petrarca, e poi chiedete da lor’ che || medesimamente da voi si sentirebbe in alcuni versi latini, mi tengo obbligato a darvi prova nel mio dire, e voglio disobbligarmi della promessa.
Dunque noi sappiamo, che essendo morta la lingua latina, ella non più naturalmente si parla, ma solamente per istudio, e che nel suono di sue parole, pronunziate da noi malamente, commettiamo errore; e spesso le brevi sillabe allunghiamo e le lunghe abbreviamo; e di qui siamo certi, che cantando i versi latini noi