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agosto, fa tanto godere l’acqua d’Arno giocondamente.

Or. Sarà per me fatto il vostro volere. Ma troviamoci soli, che non sono li strani ragionamenti da divolgarsi.

C. Ben dite.




IL GERI

OVVERO

DELLA TESSITURA DELLE CANZONI


Jacopo Cicognini, Giuseppe Orzalesi, Gio. Francesco Geri.


Or. Siate ben ritrovato, carissimo Cicognini; noi, siccome uomini leali, tegniamo fede, e siamo qui a cenare con esso voi.

Cic. Nel tener fede voi serbate vostro costume; ma per la cena voi pagherete non picciolo scotto; tali ragionamenti siete per farmi.

Ger. Molli uomini averanno per buona derrata, dare parole e pigliare vivanda.

Cic. Quando le parole non sono parole, voglionsi comperare a peso d’oro, massimamente che la cena apprestata vi fu con fiorentina modestia; ma poichè il vino è gran parte dei conviti, io m’affido di ricevervi a cena non vergognosa. Averemo un vermiglio di Chianti, ed averemo vernaccia di s. Gemignano, la quale hammi mandata in dono l’ammirabile nostro Bronzino.

Or. Se per noi si dovesse, come in Firenze usasi, improvvisare, la eccellenza di quei vini sarebbe opportuna; ma dovendosi di cose minute tenere ragionamento, non so come andrà la bisogna.

Cic. Ella andrà bene, se ben noi mesceremo. Ora udite me, o amicissimi: noi abbiamo di vivo giorno pressochè un’ora, ed in cima la torre il sole ci dà noia; a me pare, che ci acconciamo in questo terrazzino di donde egli si è dipartito, ed ove il vento marino tuttavia ferisce. Qui formeremo le nostre dispute, ed usciti di scuola comanderò che si forniscano le tavole: cosi pare a me, se a voi è a grado.

Or. Non può meglio disporsi questa giornata: sediamoci.

Cic. Ecco le scranne.

Or. O Geri, a voi tocca il favellare; noi vi diamo le nostre orecchie per un’ora.

Ger. Fiami a bastanza minore spazio? Io, Cicognino carissimo, sono dal nostro Orzalesi a pieno fatto chiaro de’ vostri desiderj, e però, senza che più v’annoiate a parlarmi, io posso dirvene quanto già intesi, e soddisfarovvi. E cominciando di qui io affermo, che nella volgar lingua è usanza di comporre yersi dalle quattro sillabe fino alle dodici, per modo che si verseggia in varie maniere, purchè sia l’accennato aguto su varie sillabe; e delle arti di costruire sì fatti versi io non favellerò, perchè non è ciò di nostro proponimento. Ha dunque la volgar lingua tante varietà di versi, ed halla avuta per lunghissimo tempo a dietro; i quali versi fien questi:

E l’amanza.
Non par mià grato.
Minore mi tiene.
Chiare fresche dolci acque.
Dolci per la memoria.
Che sia in quella città.'
Quando miro la Riviera.
Io non l’ho, parche non l’ho.
E chi non piange, ahi duro core.
Chi vuol bevera, chi vuol bevere.
Nel mezzo dal camin di nostra vita.
Con esso un colpo per la man d’Artù.
Fra l’isola di Cipri, e di Majolica.

Questi versi, secondo che variano gli accenti aguti su le loro sillabe, variano la loro maniera. Perciocchè se l’accento aguto siede sopra le sillabe pari, quei versi hanno ragione di versi giambici, parlando con voce latina; non che veramente sieno giambici, cioè composti di tutti piedi giambici, ciò intendere sarebbe non intendermi; ma perchè se essi se ne componessero interamente, le sillabe pari averebbono adosso l’accento aguto; e se altri volesse pigliar fatica, pur formerebbe un verso tutto di piedi giambi, sì come formollo Dante; ed è l’ultimo della sua Commedia:

L’Amor, che mova il cielo, e l’altre stelle:

Quando poi su le sillabe dispari fermasi l’accento aguto, allora riescono i versi a ragione di versi trocaici, pure favellando con voce latina: non ch’essi sieno composti tutti di piedi tronchei; ma se fossero, averebbono l’accento aguto adosso alla sillabe dispari. Con questa ragione poi si fanno o più lunghi o più brevi, secondo che al poeta è più a grado; e di ciò non ragionerò più. Ho ben da ragionare intorno alla ragione che può movere altrui ad adoperarli poetando; e ben può addivenire che sieno versi della lingua, ma sieno tali alcuni di loro che la lingua, per farsene bella, debba rifiutarli. E però io dico così: primieramente essendo versi della lingua pare dicevole che essi si accettino e non rifiutinsi, perciocchè indarno sarebbero versi se non si adoperassero. Di più se la Spagnuola e la Francese, lingue nobilissime, sono ricche per varietà di versi, non pare buon consiglio che la Toscana stia con due qualità di versi solamente; perciocchè i gran poeti suoi non altro hanno usato fin a qui, salvo versi di sette e di undici sillabe. Par sì che i Greci per lo spazio di seicento anni stettero col verso esametro solamente, ma Archiloco, facendo udirne di novelli, trasse i popoli a scriverne con infinita varietà; e similmente veggiamo che i Latini vollero far così, de’ quali seguitar le vestigia non può es-