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298 | POESIE |
Alc. Se fosse, Melibeo, come tu dici,
Con Aretusa sua faria dimora,
Ch’ella altrui non conosce,
Con esso lei non è; solo, perch’ora
Di quello albergo io parto,
Che vi condussi il suo fratel Logisto,
Ah ch’ella è trapassata, il corpo spento
O lupo ingordo, od orso
Ha quinci tolto, e ne’ loro antri oscuri
Di quella alta beltà gran strazio fanno;
Misero me, quale altro amante in terra,
O si visse, o mori con tanto affanno?
O desir di vittoria
A che m’avete scorto?
O paterne foreste
Dogliomi forse a torto?
Viene fra voi la bella donna mia
Per darmi, ed ecco il perdo
Ah per qual duro modo, ogni conforto.
Mel. Non è vano il timore,
Lagrimi a suo talento;
Piangendo si rallenta un gran dolore.
Alc. Quando mai rimirossi, o Meganira,
Disavventura uguale?
Tu cadi saettata,
Ed il fratel ministra,
E l’amante discocca il fiero strale.
Mel. Vero ei favella; esempio
Miserabile ed empio.
Alc. Ninfa, che di beltà splendesti in terra
Mirabile, infinita,
Così da noi partita
Volgi pietosa il guardo a’ miei tormenti.
Senti, deh senti il suono
Di questo sen percosso,
Ascolta i miei lamenti in tanti guai,
Mira questi occhi molli,
Ch’asciutti in terra non vedransi mai,
Ben del commesso errore
Con pronta morte io pagherò la pena;
Ma tu benigna a questa man perdona;
Come d’alta beltade,
Così d’alta pietà porta corona.
Meg. Non far più che rimbombi,
De’ mesti gridi tuoi questa foresta;
Alcippo, eccomi presta
Ad ogni tuo conforto;
Deb che fai? le ginocchia alza da terra,
Perchè mi t’appresenti
Così tra vivo, e morto?
Alc. O pietà somma: da’ beati campi
Anima benignissima diparti
A consolare un’empio?
Mercede, o Meganira,
Che secondo il mio merto.
Or or di questo petto io farò scempio.
Meg. Frena la man, che fai?
Affisa gli occhi in me, son Meganira,
Forse obbliata m’hai?
Alc. Ben ravviso, ben veggio
La sempre incomparabile bellezza,
Ma cotanto l’offesi,
Che mirar non la deggio.
Meg. Ascosta in quelle piante
Dianzi raccolsi, Alcippo, i tuoi lamenti,
E chiaro so, come te stesso inganni,
Io mi son viva, e vegno
Non dagli Elisj campi,
Ma dal nostro Liconte: omai disgombra
Tanti non giusti affanni.
Alc. Se pur tu non adombri
Per consolarmi il vero,
Deh narra la cagione, onde ia qaci vepri
Così ti racchiudesti.
Meg. La ti dirò; correa bramosa intorno
Per ritrovarti, ma temea non forse
Io m’incontrassi in mio fratel Logisto;
Però colà m’ascosi infin che ’l giorno
Venisse meno, che per l’aria scura
Agli occhi altrui coperta
Cercar di te volea;
Sovraggiungesti, e saeltasti; ond’io
Vinta dalla paura
Nella più folta selva penetrai,
Ed a fuggire intenta
Il vel che mi donasti abbandonai.
Alc. Ma quello sparso sangue,
Che sulla terra vidi, onde venne egli?
Meg. Trasvolando lo strale
Mi punse, e non mi punse il braccio manco,
Non può dirsi ferita,
Così fu lieve il male:
lo con immensa piaga arei pagato
Il suon di tue querele,
Che mi fecer secura
Come inverso di me tu sei fedele.
Alc. Moviaino alle capanne d’Aretusa,
Là prenderem consiglio
Siccome ben conviensi
Al passato periglio.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Uranio, Aretusa.
Ur. Non t’affannar parlando
Aretusa, con me più lungamente;
Io nella vecchia etate
Cosa altra disiar non mi saprei,
Che rimirar nipoti,
I quai sul fin dell’ultime giornate
Chiudesser gli occhi miei;
Sia persuaso Alcippo;
Uranio è persuaso;
Ar. Egli tanto di foco ha chiuso in seno;
Tanto per Megauira
Si strugge, ch’oggimai quasi vien meno.
Ur. Non vo’, ch’egli si strugga disiando,
Struggasi dolcemente
E godendo, ed amando,
Ma fuor di queste nostre selve,
Amori ha ricercato?
Non era qui tra’ Caffj alcuna Ninfa,
Per cui fosse infiammato?