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18 | poesie |
Sicché dolci per lei fiano i miei rai.
Così diss’egli; e sai,
Che degli Dei mentir non è costume.
XX
PER FRANCESCO GONZAGA
marchese di mantova, generale de' veneziani
Si oppose a Carlo Ottavo, assediò Novara,
onde segui la pace1.
Chi su per gioghi alpestri
Andrà spumante a traviar torrente,
Allor ch’ei mette in fuga aspro fremente
Gli abitator silvestri?
E depredando intorno
Va con orribil corno?
O chi nel gran furore
Moverà contro fier leon sanguigno?
Salvo chi di diaspro e di macigno
Recinto avesse il core,
E la fronte e le piante
Di selce, e di diamante.
Muse, soverchio ardito
Sono io, se d’almi Eroi senza voi parlo;
Muse, chi l'onda sostener di Carlo
Poteva, o ’l fier ruggito,
Quando ei l'Italia corse,
Di sè medesma in forse?
Chi di tanta vittoria
Frenar potea cor giovinetto altero2?
Chi? se non del bel Mincio il gran guerriero?
Specchio eterno di gloria,
Asta di Marte, scoglio
Al barbarico orgoglio.
Non udì dunque invano
Dal genitor la peregrina Manto,
Quand’ei lingua disciolse a fedel canto;
Sovra il regno lontano,
E di dolce ventura
Fé’ la sua via sicura.
Figlia, diss'egli, figlia,
Del cui bel Sol volgo i miei giorni alteri,
Sol dell'anima mia, Sol de' pensieri,
Se non Sol delle ciglia,
Dolce é udir nostra sorte,
Pria che ’l Ciel ne l’apporle,
Lunge dalle mie braccia,
Lunge da Tebe te n’andrai molti anni,
Ne ti sia duol, che per sentier d’affanni
Verace onor si traccia,
Per cui chi non sospira
Indarno al Cielo aspira.
Ma Nilo, e Gange il seno
Chiude a' tuoi lunghi errori, alma diletta;
Sol le vestigie de’ tuoi piedi aspetta
Italia, almo terreno,
La 've serene Tonile
Vago il Mincio diffonde,
Là de’ tuoi chiari pregi
Suono anderà sovra le stelle aurate
Là di tuo nome appellerai Cittate:
Cittate alma di Regi;
Regi, che a' cenni loro
Volgerà secol d’oro.
E se fulminea spada
Mai vibreran ne i cor superbi e rei,
Non fia, ch’il vanto degli Eroi Cadmei
A questi innanzi vada;
Benché Erimanto vide
Con sì grand'arco Alcide.
XXI
A FRANCESCO GONZAGA
principe di mantova
Il giorno delle sue nozze.
Se per vecchiezza rea
Non sbandisse i trastulli umana vita,
Io scherzo vorrei far delle mie dita
L’ Arpe di Citerea,
E frondoso
Di bei pampini di vili,
Me n’andrei su'tuoi conviti,
Intrecciando Inno amoroso.
In cotanta allegrezza
Forse agli orecchi altrui giungerla grata
Per opra di mia man cetra sposata
A versi di dolcezza,
I cui canti,
Per virtù di note scorte,
Celebrassero la morte,
Onde vivono gli amanti.
Ma la già corsa etate
Odia le fiamme degli affetti ardenti;
E mal sanno volar fervidi accenti
Fuor di labbra gelate;
Quinci, o Clio,
Volgi il guardo alle mie chiome
Già canute, e dimmi come
Tesser deggia il cantar mio.
Ornai fatto è palese
Fin dall’Esperio all’Oceano Eoo
Ciò che dal buon Cantor l'altò Alcinoo
Alla sua mensa intese;
Quando intento
Raccoglieva il suon de'carmi,
Che narrò fra perfide armi
D’Ilion l’aspro tormento.
Di sanguinoso affanno
Sotto lucente acciar già vinti e lassi
I Micenei guerrier volsero i passi
Per la via degl’inganni;
E destriero
Con gran pini intesti alzaro,
Che de' monti alpestri al paro
Appariva a mirar fiero.