Ed in terra ed in mar vuole esser guida,
Grazie impetrando alle falangi armate.
Oh se a’ nostri desiri alba ne mena
Ore sì liete, e per sì fatti voti
Rivolgonsi nell’alto astri felici,
Qual ne’ monti Febei vedrassi vena,
Che non trabocchi? ed a sì bei trofei
Quali non serviranno Aonii Cigni
Contra la forza degli orror Letei?
Dunque sorgiamo a venerare i Santi,
E perchè siano pronti i lor soccorsi,
Segui mio core a raccontarne i vanti.
Ove de’ giorni suoi quindici corsi
Non siano affatto, ha per usanza Giugno
Ornare il nome, ed il martir di Vito:
Vito, che tra lusinghe e tra minacce,
E tra percosse, e tra cocenti fiamme
Seppe nell’alto ciel farsi gradito:
Lucidissimo specchio, in cui si scorge
Come le pene, ove per Dio sostiensi,
Fanno felice: a gran ragion si vanta
Di sì canuto senno in gioventute
Sicilia, che ne fu la genitrice.
Ma poscia che otto volte in bella sera
Espero sorga, apparirà l’aurora,
Che le fasce mirò del gran Battista,
Di cui la vita a raccontare in terra,
Quanto fu grande, converría, che il Cielo
Mandasse fra’ mortali il Citarista.
Ei sen corre fanciullo entro il deserto
Di fere albergo: ivi fontane ed erbe
Fur suoi conviti, e di cammello il pelo
Le molli sete, onde vestiva il tergo:
Ivi forza di Sol, forza di gelo,
E dell’aria soffrì tutti gli oltraggi,
Pur flagellando in sè somma innocenza;
E quinci esposto agli altrui sguardi, ei fece
Lunge volar delle sue voci il suono,
Araldo a’ peccator di penitenza:
Ei raccolse i dispersi; ei loro il calle
Additò dello scampo, i cor perversi
Tonando ei fulminò: scettri, corone
Disprezzò, minacciò: spirto d’Elia
Tu spandi lume; tu precorri i lampi
Del Sol superno; tu riversi in fronte
L’onda del sacro fiume al gran Messia.
Per te scemò, per te cessò l’orgoglio
Il re d’Averno, che per te sue fiamme
Ardeano indarno; e fra tartarei zolfi
Non avea pur favilla Etna d’Inferno.
O da’ parenti già poco aspettato,
Per angelica voce al fin promesso;
E di grazie ripieno anzi che nato
A noi rivolgi il guardo, e per noi prega
Il Signor sommo, a cui dimori appresso:
Ma tu pregio del Tebro, e tu mio Nume,
Ciampoli, cui ritolto al cieco obblio
Fama cupidamente in guardia prende,
Vientene meco, ove celeste Euterpe
A rimembrar di Pietro inclite prove
Omai n’attende: qual feroce in arme
Campion dispiega glorïosa insegna,
Che non sia vile in paragone? e quali
D’antica Macedonica falange
Non rimarran sulla riviera Eoa
Scure corone? Pescatore ignoto,
Dentro il picciolo mar di Galilea
Mai sempre usato a remi, usato a sarte,
Soletto se ne vien, scalzo ed ignudo
Fra i sette Colli ad atterrar Tarpea,
Ed al popol domar crudo di Marte.
Quella madre di Dei, quella Giunone,
Quel tra fulmini suoi tanto adorato
Giove, fra mille scherni al fin divenne
Larva d’Inferno; e sel mirò Nerone.
Non per tanto, dirai, sotto il tiranno
L’ardito pescator morte sostenne;
Ei la sostenne: ma che poi? là dove
Pigliò l’anima afflitta il suo bel volo,
Chiara salendo alle superne rote;
Ivi appunto ad ognor bagnasi il suolo
E percotendo il petto alte preghiere
Fervidamente far turbe divote:
Nè solo vien il peregrin, che guarda
L’Orse stellate, e per li campi eterni
Volgersi attorno, e carreggiar Boote,
Lume nell’oceán non giammai spento;
Ma color, che rivolti al Polo d’Austro
Godono il chiaro Sol per nuovi mondi,
Dell’ardir Savonese alto argomento:
Quivi dan vanto alle ricchezze eccelse
Dell’ampio tempio, e de i cotanti altari;
Benchè fra monti lor fiumi d’argento
Se ne corrano ognor con foci immense,
E che di gemme sian superbi i mari.
Tal feo decreto l’immortal possanza,
Che dal seggio trabocca i cuori altieri
Ed i dimessi volentier sublima,
Perchè di lui si tema, e in lui si speri.
Or noi siam pervenuti a mezzo il calle,
Per appressar la disïata meta,
Ove correndo un anno, al fin si posa.
Giugno se ne riman dietro le spalle,
E luglio ardente ne raccoglie: omai
L’arida cicaletta assorda il cielo
Con ostinate strida; ed ogni rivo
Omai lascia languir l’erbe assetate;
E Febo per lo ciel batte Piroo
Con l’aurea sferza; ed ei gli eterei smalti
Calca verso il Leon, stelle infiammate.
Io non per tanto seguirò mia via
Fuor d’ogni affanno, che mi dan conforto
Le vestigia bellissime invïate
Verso l’alta magion di Zaccaria,
Però che mossa da’ segreti uditi
La non meno che il Sol Vergine eletta,
Con ratti passi a visitar s’accinse
La virtù singolar d’Elisabetta:
Ne di porpora il busto, e non si cinse
Di perle i fianchi: alla mortal vaghezza
Dello stuol femminil lasciò le pompe,
E l’alterezza delle regie spoglie.
Ella reina, e destinata a scettri
Dell’infinita regïon celeste
Con poveretto velo i crini adombra
Semplicemente, e di vulgari manti
Le membra scelte ad adorarsi veste:
Ma stella scintillante in ciel sereno
È scura luce, e tra sue rose Aurora
Sorge dall’oceán vile a mirarsi;
Anzi fulgido Sol splende via meno,
Quando dal sommo delle sfere ei spande