Cotanto oltra ragion forse valore
Non ha mia destra, che le stelle accese,
Che termine del mar pose al furore,
Di cori iniqui raffrenar l’imprese?
S’egli è talmente, il vi dirà l’ardore
Ch’in Pentapoli già fiero discese,
E l’onda immensa che agli Ebrei s’aperse, 64E che nel grembo Faraon sommerse.
Dirallo il re, che con gli armati Assiri
I regni oppresse dell’ebreo Giordano,
Quando dentro una notte, alti martiri,
Tanti suoi spenti traboccâr sul piano,
Io del gran ciel do movimento a i giri,
Ho della terra i fondamenti in mano;
Comando al Sol, che per cammin s’arresti, 72Ed i suoi corsi al cenno mio son presti.
Degli alti monti, se a tonare io prendo,
Le cime avvampo, e nell’abisso i mari
Fo tempestosi, e tutta l’aria incendo,
Non pur son forte a sostener miei cari:
Ma quando in pena io gli abbandono; intendo
Che sian per prova di virtù più chiari
Nell’universo; e del martir sofferto, 80Che lor si cresca la mercè col merto.
Ben di Giovanni l’ammirabil vita
Incontrerà malvagità terrene,
E dal busto la testa alfin partita,
Fonti aprirà dall’innocenti vene;
Ma traslato qua su, pace infinita
L’aspetta in queste piagge alme e serene,
Ove fuor d’ogni tempo ha da bearsi, 88Nè di gloria i mortali a lui fian scarsi.
Ei d’ogni pregio mirerassi altero,
Ovunque il mondo adorerà miei regni,
E saran sulla Senna e sull’Ibero,
Al suo nome inchinar pronti gli ingegni:
Ma nella reggia, che ha dell’Arno impero
Avrà d’onor più manifesti segni;
E saran verso lui più caldi i petti, 96E quinci del mio cor fian più diletti,
Non così l’empio; di miserie involto
Andrà disperso, all’universo scherno,
Vivendo Erode, e tra martir sepolto
Traboccherà dentro l’incendio inferno
Eternamente: io le preghiere ascolto
Degl’innocenti; io le malizie scerno
Di chi mi spregia e di giustizia è privo, 104E tutto in seice ed in diamante io scrivo.
Qui tacque; e su nel ciel gli angioli santi
Il sempiterno re pronti inchinaro,
Poscia con atti di letizia i canti
Della sua loda unitamente alzaro.
Sonò l’Olimpo, e dove i rai fiammanti
Vibra il Centauro, e dove Arturo è chiaro,
E dove l’aureo Sol sue lampe accende, 112E sonò, dove a sera in mar ei scende.
Qual sulla piaggia, e di Caístro al fiume,
Allor che posa raddolcito il vento,
Alzano i cigni dalle bianche piume
Il tanto ad ascoltar caro concento;
Tal per li regni dell’etereo lume
Era ogni spirto a belle note intento;
E tra suoi ceppi rivolgea non meno 120A Dio il Battista alti pensier dal seno.
Quantunque delle membra il fragil peso
Faccianlo a forza cittadin mondano,
Ei col pensiero in sulle stelle asceso,
Con la mente dal mondo erra lontano,
Pensa tra sè, che in mille guise offeso
È Dio, per poco predicato invano;
Pensa, che il nome suo sì mal s’adora; 128E quinci un giusto zel l’arde e divora.
Signor, dicea, di cui la man pietosa
L’uom, che pose nel mondo il vi mantiene
Con tante grazie; abbominevol cosa,
Che a lui del tuo voler nulla sovviene;
Che per sue rie vaghezze empio non osa?
E come tua possanza a vil non tiene?
Di che non s’arma ad oltraggiarti? E forse 136Che sempre tua pietà non lo soccorse?
Quanto sono de’ messaggier profeti
La voce a dichiarar l’alta promessa,
Che un di giungendo al fin gli aspri divieti
Strada da gire al ciel fora concessa?
Ed oggi per fornir gli alti decreti
Del Figlio apparsa e la persona istessa,
Agnel di Dio, che fa quaggiuso albergo, 144Le colpe altrui per tor sul proprio tergo.
Di sua pietà fan memorabil fede
Immense prove: I già sepolti han vitaş
Il zoppo affretta l’orme; il cieco vede;
Nel duro inferno è sua parola udita:
Ma qual di tanto amor tragge mercede?
È sua mercè, sua maestà schernita;
Lunghe bestemmie, dimostrargli il viso 152Colmo di sdegno, e procurarlo anciso.
Veracemente delle fonti eterne
Sprezza Giudea la desïabil vena,
E dassi a fabbricar rotte cisterne,
Ove può l’acqua raunarsi appena:
E l’occhio tuo, che su dal ciel lo scerne
Ira non turba? e la tua man ripiena
Di mille lampi mirerassi senza 160Un tuon per questi iniqui? O sofferenza!
In questo apria della prigion ferrata
I varchi angusti, ed odiosa gente,
Di vilissime spade il fianco armata,
Ma cruda in atto e nel parlar fremente,
Scorgea Grassarte: era a fatica entrata,
Che del gran prigionier l’alma innocente
Il tempo giunto del morir comprende, 168E tutto franco a favellarne prende.
Alza la fronte in nulla parte oscura,
E volge il guardo mansueto e chiaro,
E non che sull’estremo aggia paura,
Ma sembra, ch’il morir giungagli caro.
Dice, o diletti miei quanti natura
Pose nel mondo, o tutti a morte andaro,
O che n’andran; di questa fragil carne 176Il rio peso depor non dee turbarne.
Turbisi l’uomo; e di supremo orrore
Seco stesso in pensar venga tremante,
Che per farne giudicio il gran Signore
Vuol, ch’ogni spirto gli si scorga avante:
Se giusto visse, s’ebbe puro il core.
Se furo l’opre a dio gradite e sante,
Dell’alto ciel fia cittadin; se a schern 184Ebbe la legge, abiterà l’Inferno.