Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
del chiabrera | 261 |
Ma se tuo cor d’umanità sdegnoso
Non schifa ragionevole preghiera,
Io reputo d’avere, onde parlarti
Per nostro scampo, che con tal possanza
190N’hai combattuti, che a niun rimane
Cosa onde racquistar speri suo regno;
Non città forte, non tesor, non gente:
Or da che parte dei temer la vita
D’uomini di fortuna si deserti?
195Aggiungi poi, che per la nostra morte,
Disperati a ragion di lor salute,
Ti faran gli altri re via più contrasto;
Ma, se fidando in tuo valor, non curi
Al mondo forza di nemico, almeno
200Onora Dio, ch’ha titolo di pio.
Così diceva, e Giosuè risponde:
Perchè s’onori il sommo Dio, convengo
Dar vostro sangue alla Giustizia eterna:
Ei me lo ’mpone; e si dicendo ei vibra
205La sanguinosa punta in mezzo il ventre:
Ivi squarcia lo stomaco nervoso
Impetuosa, e tra le reni impiaga
Con largo foro, e quei supin trabocca.
Tal bella pioppo, che dell’Arno in riva
210All’anno caldo le fresche erbe adombra,
Che trapassando il villanel destina
Suoi forti tronchi a ristorar le rote
Del vecchio carro, onde recisa a terra
Traggela al fin la rusticana scure,
215Ed ella nel cader forte rimbomba;
Tal ruinando rimbombò sul piano
L’afflitto re, che sul fuggir dell’alma
Gemendo sospirò l’antico regno.
Ma per lo strazio altrui scorta d’appresso
220Omai ana morte, il re Giaffia sospinto
D’alto furore a Giosuè ragiona
Gridando: ab can d’inestinguibil rabbia,
Ora è si fatto il guerreggiar co’ regi?
Così s’adopra la vittoria? i prieghi
225Schernir de’ vinti? e confondendo il sangue,
L’un sopra l’altro dissipargli? e poscia
Osi chiamarti esecutor del Cielo?
Che tuoni Dio: che un fulmine ti spenga,
E t’innabissi, orrido mostro. Or quivi
230In se più queto il grande Ebreo rispose:
Chi serve, e teme d’Israelle il Dio,
Per sé non teme o fulmini od abissi;
Ma tu pur mori, e col tuo sangue insegna,
Come l’ira di Dio fulmina e tuoni:
235Non avrà sposa, che ti lavi, o madre,
Che di sua man gli occhi ti chiuda: i frutti
Son questi al fin della malizia altrui.
Al fin delle parole alza la destra,
E colà fere, ove si lega il collo
240Con duri nervi alla sinistra spalla;
Scende il ferro feroce in mezzo il petto;
E quei fatto di gel trabocca a terra,
E la chioma real per entro il sangue
Atro si macchia; in cotal forma alquanto
245Solleva gli occhi ricercando il Sole,
Poi scotendo le gambe, esce di vita.
Sopra lui morto Giosuè non posa,
Che di Gerusalem spegne il tiranno:
Egli presto al morir non fe’ parola,
250Ma con esso le man gli occhi s’ascose,
Forte aspettando la crudel percossa;
E Giosuè su per la testa il fere,
E spezza l’osso, e la cotenna, e parte
Il crudo ferro le cervella, e scende
255Giù per la gola, e gli disperde i denti,
Che lunge ei vomitò per entro il sangue.
Quale alta quercia, che divelse un nembo
Al ventoso apparir del crudo Arturo,
Cade sul prato, e fa sonar la valle;
260Tal cadde quegli, e fe’ sonar la terra.
E come allor, che alle belle onde intorno
Stansi le mandre de’ bifolchi Eoi,
Se Gangetica tigre assal gli armenti,
Spandesi un lago sanguinoso, e stesi
265Stanvi per entro lacerati i tori,
Che dianzi di muggiti empiean le selve:
Cosi dall’alta man ciascun percosso
Giacean tra il sangue i principi Amorrei.
Ma Giosuè dalla foresta impone
270Trar cinque piante a’ suoi guerrieri, e porle
Parte sotterra, e sollevarle al cielo;
Indi a quei tronchi immensi il busto appende
De’regi ancisi, e finchè il Sol trascorse
Stetter per l’aria, miserabil vista;
275Poi quando scorse l’umid’ombra oscura
A ricoprire il volto della terra,
Furo sepolti entro quell’antro istesso,
In cui dianzi fuggendo, ebber speranza
Di porre indugio all’odiata morte.
VII
LA PIETA’ DI MICOLE
ALL’ILLUSTRISSIMA SIGNORA
MARIA GIOVANNA GIUSTINIANI.
O del sacro Giordan lungo la riva
Mossa lunge dal volgo abitatrice
Candidissima Vergine discendi
Su piume d’ôr, nè mi lasciar qui solo:
5Tu non Giacinti sul Parnaso Argivo
Tessi caduchi, o frali rose, o mirti
Di breve odor; ma le tue man son vaghe,
D’eterni gigli, e quegli odori apprezzi,
Che spiransi da balsamo celeste,
10E che san medicar piaga di morte;
Però vientene, o Diva, e meco esponi
La pietà vera della bella Ebrea,
Quando al consorte procacciò salute,
I paterni furor prendendo a scherno,
15Ben degna, o Diva, di ghirlanda, e degna
Di farsi specchio a femminili ingegni.
Ora a te, che su’ gioghi del Carmelo
Ascolti più, che in Pindo, inclite Muse,
Qual verrà canto sovra eterea cetra,
20Che sia più caro? o qual dirassi istoria
Egualmente diletta a tua pietate?
Per tanto, o se movendo in riva al mare
Dái co’ begli occhi meraviglia a Dori,
O se infiori co’ piè l’alte pendici
25Tra l’aure fresche del gentil Fassolo,
Cresci tal volta i tuoi diletti, udendo
Il vero amor d’una real donzella.
Posciachè pieno il cor di tosco inferno
Provò Saulle in van di trarre a morte