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del chiabrera 241

Su quell’ora triton, rapido araldo
Del Tridentier Nettuno, indi correa,
125E fatto presso alla spelonca, scorse
Galatea dolorosa: il corso ei ferma,
E le si appressa, ed a sì dir le prende:
Perchè da sì begli occhi esce di pianto
Cotesto fiume? onde cotanta angoscia?
130Chi sì t’affligge? Ei si diceva; ed ella
Stavasi muta, onde Triton soggiunge:
Teco non discendo io dal gran Nereo?
Non siam suo sangue? or perchè dunque ascondi
A me del tuo dolor gli avvenimenti?
135Ah tu m’oltraggi: Allor col bianco velo
La Ninfa asciuga l’amorose stille,
Che rigavan del petto i vivi avorj
Tepidamente, e sospingea la voce
Fuor delle rose, onde fiorian le labbra:
140Fora forse il tacer minor tormento,
Ella rispose, ma se vuoi, che io dica,
Io pur dirò. Della leggiadra figlia
Del bel Simeto, e d’un bel Fauno al mondo
Aci sen venne, e senza pari in terra
145Fu di beltà: vili le perle, e l’ostro,
Vili i gigli, e le rose appo quel volto,
Ed era vile il Sole appo quegli occhi.
Egli si avvicinava al quinto lustro,
Quando Amor di sua man dolce n’avvinse
150Con caro nodo, ma non fu contento
Di vincer noi, che per suo gran trofeo
Con mia bellezza Polifemo accese:
Orribil mostro, che nel ciel disprezza
Il gran Tonante, e pur da me trafitto
155Apprendeva a formar dolci parole,
Benchè tonasse favellando. Un giorno
Tra le foreste egli sedea d’un monte,
Che in mare lungi s’esponeva, ed Aci
Era meco a gioir lungo la riva.
160L’alma inumana delle mie bellezze
Facea racconti, e degli orgogli insieme
Aspra querela: egli dicea, che rosa
Men fioriva d’April, che le mie gote;
Ch’erano ambra le chiome; e che sul petto
165Mi fioccava ad ognor candida neve;
Ma che rabbia di Borea era men cruda
Delle mie voglie, e che le rupi d’Etna
Vinceva in paragon la mia durezza:
E poscia de’ suoi pregi a narrar prese:
170Ho nel grembo de’ monti ampia caverna,
Ove forza di Sol non fa sentirsi
Nei giorni ardenti; e quando regna il verno,
Soglionsi trapassar calde le notti:
Ho tanti armenti, che si prova indarno
175Altri a contarli: nell’erbose valli
Parte si pasce; e se ne pasce parte
Per la foresta, e parte entro gli alberghi
I fedeli bifolchi hanno in governo.
Or di me che dirò? mira che monte
180Alta cima non ha, che io non pareggi;
Mira bosco di barba, che mi adombra
L’immenso petto, e delle folte chiome
L’orridità; quinci può farsi altrui
Manifesto il vigor di queste membra.
185Sarà forse ragion, che io sia men caro,
Perchè di un occhio sol la fronte adorno?
Grande sciocchezza! or chi disprezza il Sole
Nell’alto Olimpo? ed egli pur discerne
Sol con un occhio l’universo appieno;
190E non per tanto, o Galatea, mi fuggi:
Ne ciò ti basta, anzi ti doni ad Aci
Vil garzoncel; ma se giammai ventura
Mel reca innanzi, io saprò far vendetta
De’ miei tormenti; non gli fia difesa,
195O Galatea, che tu sì forte l’ami:
Io gli farò lasciar l’indegna vita
Su questa piaggia, e sbranerò le membra,
Che sviano da me le tue vaghezze.
Così gridando egli menava smanie
200Per troppo fuoco, e trascorreva il monte,
Qual veggiamo talor vedovo toro;
E trascorrendo n’ebbe visti. Allora,
Ecco l’ultimo dì de’ vostri amori,
Intonò forsennato. Al fiero grido
205Rispose di Sicilia ogni spelonca;
Ed ei scagliò con mano orrido scoglio,
Parte del monte, che giungendo ad Aci,
Il franse; e sanguinoso il ricoperse,
E per me tolse il Sol di questo mondo.
210Ecco l’istoria de’ miei lunghi affanni,
Da’ quali vinta omai nulla disiro,
E nulla spero; anzi mai sempre intenta
In lor col pensamento io mi distruggo,
E prendo a sdegno l’immortal mia vita.
215Ahi lassa, ahi lassa me! sempre ch’io miro
Queste pendici d’Etna, il fier Ciclopo
Emmi negli occhi, e l’esecrata rupe,
Che indi volonne, e che del sangue amato
Bagnò l’arene. Ella sì disse; e forte
220Così dicendo disgorgò dagli occhi
Un fiumicel d’innamorato pianto.
Triton stette pensoso: indi ver lei
Così parlava: O bella, o di Nereo,
E di Dori carissima fanciulla,
225Tempra alquanto il cordoglio, e ti rammenta,
Che Amore ama far strazio degli amanti.
Non perdonò suo strale a Citerea,
Sua genitrice, ed ebbe il cor sì fiero,
Che sovra il bello Adon la fe’ dolente:
230Tu, se vuoi menomar l’aspro cordoglio
Che si ti rode il cor, togli dagli occhi
Questi luoghi, ove ei nacque, ed onde sorge
De’ tuoi sì duri guai la rimembranza;
Ma se di qua partir prendi consiglio,
235Odi mie voci, e non voltar tuo core,
Salvo al confin de’ Genovesi mari.
Io soglio errar per l’Oceän, trascorro
Ogni riviera, e veramente affermo,
Che non può ritrovare altrove un’alma,
240Ove tanto appagarsi: in quelle parti
Alpe non è, che tuoni, e che fiammeggi
Solforeggiando; non inghiotte Scilla
L’armate navi, e col latrar Cariddi
Non ingombra i nocchier d’alto spavento;
245Ma miransi del mar tranquille l’onde;
Nè sa volgere il ciel salvo sereno,
E di puri zaffiri; in que’ bei monti
Bacco gioisce, e per le belle piagge
I cari suoi tesor versa Pomona,
250E ride ognora inghirlandata Flora.
Che dirò di lor Ninfe? il vago Albaro
Una governa riccamente: un’altra
Regna di Cornigliano in sulle rive,
Di larghe frangie d’ôr succinta ognuna,