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240 poesie

XVIII

LE GROTTE DI FASSOLO

ALL’ILLUSTRISSIMA

SIGNORA EMILIA GIUSTINIANI.

In sul mezzo del ciel Febo trascorso
Volgea le rote luminose, e grave
Spandeva ardor giù per gli aerei campi:
Già stanco l’arator prendea riposo
5Sotto verde ombra, e le selvagge fere
Cercavano l’orror dei folti boschi
A sè schermir dalla stagion cocente.
Ne men da’ suoi pensier tutta sorpresa
Galatea scese dal ceruleo carro,
10E si nascose in solitario speco
Non lunge ad Etna: era lo speco alpestro
Coverto il pian di verdeggiante musco,
Cui bagna il mare, indi vicin sua foce
Avea puro ruscel, ch’onda d’argento
15Ognora porta alla marina riva,
E fa col lento mormorio dell’acque
Quetarsi in sonno l’annojate ciglia.
Sullo speco 5² ergea d’ombrose piante
Antica scena, e fra tessuti rami
20S’annidavan d’augei schiere dipinte,
Nate a bel canto. In si gentil soggiorno
Pose la bella Ninfa il piè di neve;
E sè stendendo in sulla bella erbetta
Appoggia il tergo alla sassosa sponda,
25Alto pensando: poi che fisso alquanto
Tenne lo sguardo in terra, alzò la fronte,
E tra lunghi sospir sciolse la voce,
E così disse: D’infiniti guai,
Onde porto nel petto il core oppresso,
30Che dirò prima? che dappoi? mal nato
Giorno, ch’allor per me sorse dall’onde;
Io m’adornava, e di purpurei manti
Cingeami intorno, e la dorata chioma
Arricchita d’odor lasciava all’aure:
35E mi sparsi sul sen perle di Gange:
Dicea fra me: delle bellezze d’Aci
Farò felice il guardo: udrò sue voci
Da me sovra ogni cosa al mondo amate;
Gioirò de’ sorrisi; i suoi sembianti
40Non mi fian scarsi. Io sì dicea quel giorno,
E volgeva nel cor care lusinghe,
E meco stessa studïava i vezzi,
Onde addolcirlo: esaminava i modi,
Con che dolce scherzando, al fin potessi
45Crescer di mia beltade i suoi desíri
Sì fattamente io moverogli incontro;
Così gli stringerò l’amica destra;
Questi fieno i miei detti; a sue risposte
Cotal darò risposta: ahi me dolente:
50Ahi me sommersa d’ogni pena in fondo,
Tanto da me sperate allor dolcezze
Fûr, ch’io lo vidi per le man d’un mostro
Giacersi estinto, e del suo nobil sangue
Tutto bagnarmi il grembo, e farsi un fiume:
55Che prenda ogni miseria il fier Ciclopo,
Che s’innabissi, e nell’orribil centro
Se l’inghiotta la terra. O bella Aurora,
Non scorgere dal cielo ora serena
All’empio sguardo, e tu, gioconda Luna,
60Fa, ch’ei non vegga mai tranquilla notte:
Non dovete lasciar disperse al vento
Le mie preghiere, ch’amorosa fiamma,
O belle dive, mi vi fa compagne:
Rivolgete la mente a’ folti boschi
65Ove le belve travagliar solea
Cefalo un tempo, e sull’aerie cime
Venganvi in cor d’Endimïone i sonni:
E tu, supremo adunator de’ nembi,
Giove sei disarmato? alla tua destra,
70Oggi vengono meno i tuoni ardenti?
E folgore non hai per Polifemo?
Deh come avvien, ch’a paragon d’un mostro
Sì mi disprezzi? or non son io di Dori
Verace figlia, e d’Oceán nipote?
75Non è col tuo giunto il mio sangue? e pure
Piango ad ognora, e giù per gli occhi inondo,
E verso sovra il sen lagrime amare:
Non serba cosa il mar, che mi conforti,
Ne le larghe provincie d’Anfitrite
80Han di che consolarmi, ed è funesto
Al mio guardo il regno ampio di Nereo.
Oh poco nel suo mal trista Alcïone
Pareggiata con me: senza il consorte
Ella rimase, e della fresca etate
85Fu costretta a menar vedove l’ore:
È verità; ma non lo vide in risco;
Non lo vide morir: quando ci spirava,
Ella non fu presente, ed oggi insieme,
Vestita per pietà nova sembianza,
90In riposo d’amor passano i giorni:
Ma lassa, io che non vidi in su quel punto?
Che non soffersi? e da quel punto innanzi
Qual fu mia vita? e di che fier tormento
Or non mi faccio per gli amanti esempio?
95Belle Ninfe del mar, che sciolte andate,
E franchi avete ancor vostri desiri,
Prendete guardia, e rifiutate l’esca,
Onde n’invita Amor. Che fa de’ dardi?
Che fa dell’arco? ed a che fin riserba
100La face ardente? Il traditor non valse
A campare il più bel de’ suoi fedeli,
Un, che dalle parole, un che dal volto
Spirava pregio altier d’ogni bellezza:
Ei non campollo; e tuttavia si chiama,
105E si grida figliuol di Citerea.
Ah che non Citerea, ma lo produsse
L’onda di Stige, e l’infernale Aletto,
E dell’Erebo i mostri. In questi detti,
Dietro la rimembranza de’ suoi guai
110Trasse dal fianco fuor caldi sospiri,
E sparse di bel pianto ambe le guance:
Indi le ciglia sollevando in alto
Sciolse la voce, e pur piangendo disse:
O dolce, o caro, ed o bellissimo Aci!
115Se stati i voti miei fossero in cielo
Ben ascoltati, lungo spazio in terra
Sarebbe corsa la tua nobil vita:
Or che posso io? godi riposo eterno.
In mezzo queste note alto singhiozzo
120Ruppe la voce, e dolorosa nube
Turbò l’aria gentil de’ suoi sembianti,
E quasi un sasso si rimase immota.