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234 poesie

XIII

L’AMETISTO

AL SIG. LUCA PALLAVICINO.

     Poscia che Bacco trïonfo de gli Indi
Domati in guerra, e che gli onor suoi sparse
Per tutti i lidi, onde esce fuor l’Aurora,
Ei serenando di letizia il guardo
5Correa sul Gange: ivi mirò solinga
Vergine bella in sul fiorir de gli anni
A meraviglia; ch’al volar dell’aura
Godeasi del mattin l’ore serene.
Ella era a rimirarsi alto conforto
10D’ogni anima leggiadra: in varie gemme
Raccoglieva la chioma; e solo un velo
Copriva il latte delle belle membra,
Di bianche perle, e di rubin succinta.
Subito che le ciglia in lei rivolse,
15Chi potria dir come n’andasse in fiamma
Il figliuolo di Semele? tremando
Ei scolorossi in volto, e dentro il petto
Scolpio l’immago della donna amata;
E quando alquanto rimirata l’ebbe,
20Quasi fuor di sè stesso egli si scosse,
Ed a gran pena ritrovò la voce,
E formò le parole, indi le disse:
Donna, in qual parte della nobil terra
Sono i tuoi regni? dove fermi albergo?
25E chi sei tu? non mi celar tuo stato,
Ch’io non nudrisco barbari pensieri:
Son Bacco; e per mia man raccolse il mondo
L’almo licore, onde cotanto è lieto.
Per tutto l’Orïente alzai trofei,
30E fia servo mio scettro a’ tuoi desiri,
Se non lo sdegni: in ascoltar sue lodi
Tinse la giovinetta il viso d’ostro,
Ben vergognando: e ripensando al fuoco,
Che già scaldava il petto al buon Dionigi,
35Subito ghiaccio le restrinse il core
Si, che volgendo a terra il vago sguardo,
Con tremanti parole a lui rispose:
In questa nobil terra io non ho regni,
Ne degno ne saria mio debil merto:
40Sono Ametisto, solitaria Ninfa
Di queste rive, ed è gentil costume,
Che ti fa ragionar senza dispregio
Di mia persona: ella si disse, e pose
Le rose della bocca in bel riposo.
45Ed inchinando ella facea partita:
Ma Bacco soggiungea: dove ten vai?
Ninfa, dove ten vai? ferma le piante,
E non negar degli occhi tuoi conforto
A chi languisce: ella chiudendo a’ gridi
50La casta orecchia trascorrea veloce
Senza calcar col piè la tenera erba.
Allora ardendo il vilipeso amante
In maggior fiamma, aggioga ambe le tigri
Al suo bel carro; e su v’ascende, e sferza
55La rapidezza dell’orribil belve;
Ed esse van quasi delfin per l’onde,
Saltando i campi; e son ben tosto appresso
L’orme fugaci della nobil Ninfa.
Ella il gran corso, paventando, accresce,
60E con la man tremante innalza il lembo
Di quei veli trapunti, onde si veste
A far più pronto, e più spedito il piede.
Come infestata da veloci veltri
In folto bosco se ne va cervetta,
65Ch’ad ogni fier latrato ella raddoppia
La lena al fianco, onde ruscel non trova,
Ch’ella non varchi, né traversa il calle
Fosso, ch’ella non salti; in cotal guisa
Ratta sen va la perseguita donna;
70Ma pure ad ora ad or perde in cammino,
E l’anelar delle sferzate tigri
Sente così, che le riscalda il tergo:
Allor cade la speme, e ’l vigor cessa,
Onde era franca, ed un timor gelato
75Entro le vene le comprime il sangue,
E si le stringe il cor, che non respira,
Perdendo al fin la giovinetta vita.
Ella nel maggior corso immobil fassi,
Qual marmo, che d’intorno a regia fonte
80Ebbe da Fidia femminil sembianza,
Se mai s’espone a peregrino, inganna
I suoi cupidi sguardi, e quasi viva
Va risvegliando in lui spirti amorosi;
Tal d’Ametisto, e dell’amante avvenne:
85Ei la raggiunge, e va pascendo gli occhi
Or sulle belle guance, ora sul petto
Fiamma crescendo a’ suoi desiri: alfine
Non mirando spirarle aura di fiato,
Chiaro comprese, che suoi verdi giorni
90Fossero estinti acerbamente: allora
Volgendo l’alma a’ suoi perduti amori,
E ripensando alla crudel ventura
Dell’amata donzella, egli discioglie
Giù dalle ciglia un amoroso rivo:
95Cotanto odio d’amor fu nel tuo seno,
Che me fuggendo ti mettesti in via
D’incontrar morte? o rimirata appena,
E perduta per sempre, almen gradisci
L’onor, che per me fassi alla memoria
100Della tua gran beltade: indi egli preme
Con man le viti, onde inghirlanda i crini,
E largo asperge de’ nettarei suchi.
Il gel di quelle membra: immantinente
Più che puro cristal vennero chiare,
105E soave color le ricoperse
Di violetta mammola, conforto
A rimirarsi d’ogni ciglio afflitto.
Poscia Bacco soggiunse: oltra ogni stima
Altrai sian care le tue pietre: io voglio,
110Che chi seco l’arà campi securo
Dal timor de’ miei torbidi furori,
In rimembranza del tuo caro nome.
Cosi dicendo egli sali sul carro,
E con mesto sembiante indi si tolse.
115Si meco Euterpe dell’Eurota all’onde
Sonò le corde della cetra Argiva,
Pallavicin, mentre coll’alma intenta
Tu pur vegghiavi della patria ai pregi,
O schermendo il faror del Cane ardente,
120Fiero compagno del leon Nemeo,
Cercavi l’ombre del Parnaso eterno:
Ivi lauro non è, che non rinverda
Sue care frondi al tuo bel nome, ed ivi
Suoi più vaghi elicrisi edera indora
125Per farti cerchio in sull’amate chiome.